10 Luglio 2011 07:55

Considerazioni su una striscia: L’Affaire du Collier

In queste brevi note vorrei analizzare un’originale trovata stilistica di E.P. Jacobs che dimostra la creatività e l’originalità di questo autore. Nella tavola 24 di L’Affaire du Collier, la terza striscia si presenta come un’unica vignetta lunga all’interno della quale vi sono 3 diversi riquadri che fanno però parte di un’unica scena, e che ci offrono una vista in sezione dell’appartamento del gioielliere Duranton (Fig. 1). Egli si trova nella sezione centrale, la stanza da bagno, che ha due ingressi: uno a sinistra dell’osservatore, che Sharkey e Olrik stanno tentando di sfondare, e uno alla destra, a cui il domestico Vincent e Mortimer stanno arrivando a soccorrere il gioielliere terrorizzato.
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La peculiarità della vignetta sta nel fatto che gli spazi bianchi che separano le tre scene sono stati utilizzati da Jacobs per mostrare lo spessore del muro che separa il bagno di Duranton dagli altri due ambienti. Ciò è provato dal fatto che gli spazi sono più ampi di quelli che normalmente dividono le vignette, e che sono chiusi dal bordo nero della vignetta, quindi non creano interruzione tra le vignette. In questo modo noi vediamo una sezione dell’alloggio, come nelle case di bambola in cui si vedono tutte le stanze contemporaneamente, oppure anche come spesso avviene nel cinema, in cui la camera si muove da una stanza all’altra passando davanti alle sezioni dei muri. Jacobs utilizza dunque in modo creativo e forse anche leggermente ironico questo spazio bianco che normalmente costituirebbe il bordo delle vignette (‘gouttière’ in francese) e che Scott McCloud definisce “uno spazio inter-iconico in cui l’immaginazione umana prende due immagini separate e le trasforma in un’unica idea” (nota 1). Questo artificio ha interessanti implicazioni sul meccanismo di lettura di questa striscia. Infatti, ingannati dagli spazi bianchi e dalla struttura delle vignette che la precedono, noi tendiamo a separare quest’unica striscia in tre diversi momenti in successione; ma appena il nostro occhio l’ha percorsa interamente, ci rendiamo conto che quello che abbiamo visto era in realtà un unico momento, un’istantanea della scena complessiva. In questo modo Jacobs ha dunque annullato la sequenzialità cronologica delle tre scene. Ciò che avviene nella scena a sinistra non precede quanto succede in quella successiva, proprio come quanto succede nella terza non segue necessariamente quanto vediamo nella prima e nella seconda. Trasformando lo spazio bianco in spessore del muro, Jacobs priva questo fondamentale elemento del fumetto della sua dimensione temporale e fantastica, e lo riduce a puro spazio fisico (quello del muro, appunto). Si può quindi anche dire che in questa vignetta non avviene quella che McCloud definisce closure, (nota 2) proprio perché non c’è alcuna separazione fra le tre scene che abbia bisogno di essere ‘riempita’ dall’immaginazione del lettore. L’idea di distribuire una immagine su diverse vignette che offrono la doppia possibilità di poter essere visualizzate come una scena unica o come diverse scene isolate non è affatto nuova. Nella Fig. 2 ne vediamo un esempio datato 1936, tratto dal Tarzan di Hal Foster. Lo stesso farà poco dopo il suo successore Burne Hogarth (Fig. 3).
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Ma addirittura Winsor McCay aveva già pienamente capito le potenzialità offerte dal fumetto, e aveva fatto esperimenti in questo senso. La striscia della Fig. 4 (datata 1909!) ci dimostra come il fumetto, in mano a grandi autori, abbia sin dai suoi inizi cercato l’innovazione e la sperimentazione giocando sulle caratteristiche e sui limiti stessi del medium.
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Nella Fig. 2 è particolarmente evidente il contrasto tra quanto viene detto e quanto viene mostrato. La didascalia della prima vignetta (“Rischiava di colpire nuovamente la principessa, e la donna era ancora necessaria alle sue trame…”) richiederebbe che Flint (il personaggio armato diviso tra le due vignette) fosse ancora rivolto verso la principessa in fuga. Ma in realtà la figura di Flint è già completamente in accordo con quanto viene detto nella seconda vignetta (“…si rivolse quindi alle guardie.”). Il disegno ha quindi preceduto la sequenza cronologica degli eventi narrati, dando una visione che in realtà corrisponde già alla situazione che vediamo nella seconda vignetta. Nella Fig. 3 c’è maggior coerenza: la prima vignetta illustra l’ordine di posizionare il cannone, mentre la seconda ci fa vedere la carica degli elefanti, anche se la scena è la stessa. Ma la Fig. 4 è forse la più interessante: le quattro vignette di McCay danno nel loro insieme una visione completa del padiglione in cui ha luogo la scena, ma i personaggi compiono anche un percorso che, dalla prima alla quarta vignetta, li fa attraversare il padiglione da sinistra a destra. Al movimento della lettura corrisponde quindi un parallelo spostamento dei personaggi in una sequenza cronologica. In tutti questi casi non viene mai messa in dubbio la sequenzialità delle vignette: gli eventi narrati sono in successione cronologica (e infatti le vignette sono separate), e solo la parte iconica offre la possibilità alternativa di essere vista come una grande scena globale. Si crea così una dicotomia tra quanto mostra l’immagine generale e il frazionamento in singole vignette degli avvenimenti in essa rappresentati. Questo artificio genera nel lettore un senso di sorpresa che lo costringe a riflettere per un attimo su cosa sta vedendo (le scene singole o quella complessiva?), e a ragionare in tal modo sui meccanismi che sono alla base del fumetto. Ma ciò che fa Jacobs è diverso: pur offrendoci tre riquadri che somigliano a vignette singole, e che noi leggiamo come se lo fossero (anche perché magari non ci rendiamo immediatamente conto del suo artificio), ci presenta in realtà una sola scena, in cui tutto ciò che vediamo accade contemporaneamente. Ci troviamo cioè di fronte a una sequenzialità puramente formale / spaziale (la sequenza di lettura sostenuta da quella che potrebbe sembrare una divisione in vignette) che viene però smentita quando giungiamo alla fine della striscia e ci rendiamo conto di aver visto in realtà un’unica scena. È pur vero che la terza ‘vignetta’ di questa sequenza potrebbe in effetti essere leggermente successiva alle prime due (il domestico e Mortimer accorrono solo in seguito alle grida di Duranton), ma è anche vero che le grida di Duranton possono durare già da un po’, il tempo cioè che i banditi impiegano a sfondare la porta a sinistra. L’impostazione grafica della striscia, trasformando la separazione delle vignette in spessori del muro, ha annullato la sequenza cronologica delle singole scene e ci offre un’istantanea di quanto sta accadendo in un preciso momento. Si tratta di una tecnica molto cinematografica che a mio avviso conferma la necessità di un’analisi approfondita dell’opera di Jacobs da parte di un esperto di cinema. Purtroppo, l’idea di Jacobs non sembra essere stata compresa dai suoi nuovi editori. Con la ristampa delle edizioni Blake et Mortimer nel 1999, infatti, non solo si è intervenuto in modo abbastanza vistoso sui colori (introducendo anche le sfumature per i fasci di luce delle torce nelle vignette 1 e 3), ma qualcuno si è anche preso la briga di ridisegnare lo spazio tra le vignette riportandolo ad una normale dimensione e soprattutto ripristinando la divisione tradizionale che ora effettivamente separa le tre scene (Fig. 5).
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Nulla ormai distingue più questa striscia da tutte le altre, l’originalità di Jacobs è stata spazzata via senza alcun riguardo. Si tratta di un’operazione snaturante, particolarmente se si pensa che questa edizione avrebbe dovuto essere l’occasione per un restauro anche filologico degli albi. Avviene invece esattamente il contrario. Tra l’altro questo intervento, che avrebbe comportato una riduzione della lunghezza complessiva della striscia, ha poi ovviamente richiesto un aggiustamento del disegno per riportarla alla stessa lunghezza di tutte le altre. Nella vignetta 1 è stato così aggiunto uno spessore della cornice della porta di colore marrone (tutto sommato accettabile). Nella vignetta 3 invece l’intervento è ben più invasivo: per recuperare la perdita di spazio derivante dall’eliminazione del muro, si è creata sulla sinistra una prospettiva del pianerottolo che è in aperto contrasto con la visione prospettica precedente; se prima la vignetta 3 era vista da sinistra (cioè dal centro della striscia unica preesistente), ora sembra vista da destra. Ormai non c’è davvero più alcun legame tra la vignetta 2 e la 3; e solo la closure ci permette di collegarle. Quanti danni per un intervento in apparenza quasi insignificante!
(Articolo di Guido Vogliotti per afNews.info)

Note:
1 Scott McCloud, Capire il fumetto. L’arte invisibile, Pavesio 1996 (1998), pp. 68-101.
2 McCloud definisce la closure come l’osservazione delle parti e la percezione di un intero, ciò che permette di collegare momenti scollegati e di costruire mentalmente una realtà continua e unificata (op.cit., pp. 71-75).

Una risposta a “Considerazioni su una striscia: L’Affaire du Collier”

  1. Sugli interventi che hanno snaturato l’originalità delle tavole e del lavoro di Jacobs,ci sarebbe da scrivere molto,purtroppo.Senza entrare nel territorio della messa in digitale dei disegni e del riversamento cromatico,interventi tutto sommato piuttosto recenti,basta fare una scorsa delle edizioni che via via si succedevano dalla fine degli anni ’60 in poi.
    Posseggo l’opera integrale di Jacobs in differenti edizioni e mi sconforta notare quanto l’estrema cura messa dal disegnatore nello scegliere le tonalità cromatiche,sia stata violentata da saturazioni o viraggi del tutto fuori luogo.Per non parlare del peggio.
    Jacobs è stato artista preciso e attento fino all’esasperazione alle minime sfumature cromatiche,fin dai tempi della sua collaborazione con Hergè. Settimane intere,a volte mesi passati a scegliere una nuance di rosso lacca o glicine piuttosto di un’altra,ossessione sulle scelte di palette e abbracci cromatici riservati ad un’intera planche,vengono sconvolti in frettolose sperequazioni editoriali che nulla hanno a che spartire con la bellezza delle tavole delle edizioni più “datate”.Basti,se si vuole,verificare quanto detto sopra,nelle tavole delle edizioni Blue Circle dei vari titoli delle serie:saturazioni o perfino mutazioni di coloriture,aggiunte o rimozioni di particolari nelle tavole (dove sono finite le stelle nel cielo del Cairo nella tavola che vede il Superconstellation con a bordo Mortimer?) o cancellazioni di firme a piè pagina sono il boccone da digerire per il gusto del collezionismo di nicchia.
    Ma c’è anche chi fa giustizia.Allora forse ha ragione chi diceva di lasciare correre l’affanno del possesso delle ricercatezze,per privilegiare,ad esempio,la splendida edizione di “La Marque Jaune – Une histoire du journal Tintin” edizioni Blake et Mortimer,corredata di uno splendido dossier croquis e studi di Jacobs sul lavoro.Qui,come anche in “L’enigme de l’Atlantide”,della stessa serie,la nostalgia recupera il fascino del tesoro ritrovato.
    Dario Carta

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