Pasamonik: Charles Baron, la Shoah e Maus

Il nostro corrispondente Didier Pasamonik ha intervistato Charles Baron, noto in Francia perché è uno dei sopravvissuti ai campi di sterminio e, per conservare la memoria della Shoah, senza posa gira raccontando i suoi tre anni di orrore alle giovani generazioni. Pubblichiamo la nostra traduzione dell'articolo che appare su BD Magazine 5 in edicola, con l'occasione dell'approssimarsi del 27 gennaio.
Charles Baron è un sopravvissuto ai campi della morte, Auschwitz e Dachau. Questo simpatico vecchietto ha oggi 78 anni emezzo ("Io conto i mesi" dice, "da quando un poliziotto, quando avevo 16 anni e 2 mesi, mi disse che se avessi avuto due mesi di meno non mi avrebbe arrestato"). E' anche un appassionato di fumetti le cui testimonianze hanno ispirato parecchi albi. E' attualmente membro del comitato direttivo dei Cahiers de l'Histoire de la Shoah.
- La traccia della Shoah è apparsa poco nel Fumetto e comunque tardivamente. A cosa è dovuto?
- Forse a un grande rispetto verso qualcosa che non riesce a spiegare. Viene anche dal fatto che non si sa come rivolgersi a noi, i sopravvissuti. Peraltro non ci si deve fare delle illusioni: il Fumetto è solo da poco che è diventato, agli occhi della società, qualcosa di adulto. Non era considerato decente far apparire delle immagini della Shoah in una rivista destinata ai bambini. Non si sapeva nemmeno come spiegargliela. Non conosco un disegnatore che, prima di Pascal Croci [autore dell'albo "Auschwitz", EP editions], si sia rivolto direttamente agli anziani deportati per farsi chiarire alcuni punti.
- Questi stessi deportati, Simone Weil lo sottolineava, non hanno potuto farsi sentire per molto tempo.
Click!- Nè farsi sentire, nè farsi credere. Quello che noi raccontavamo, era al di là della comprensione della gente. Racconto spesso l'aneddoto di quella donna uscita dai campi e che si sente poco bene. Va dal medico che la esamina. Questo vede il tatuaggio sul braccio e le domanda cos'è. La donna gli racconta di Auschwitz. A un certo punto il dottore si scusa ed esce chiudendo male la porta. E la donna sente che il medico chiama un collega... di un ospedale psichiatrico, per farla internare! Non ha chiesto a quella donna cos'era Auschwitz. Ha deciso, con la sua limitata comprensione tipica dell'epoca, che era matta. Nel Fumetto, di conseguenza, non si osava parlarne, nemmeno gli autori ebrei. Ero da motlo tempo un appassionato di Fumetto, forse non un appassionato dichiarato, ma comunque un appassionato puro. Nessuno è venuto a trovarmi. Mi chiedo se gli autori di Fumetto non avessero essi stessi sottovalutato il proprio lavoro, se nella loro testa si dicevano che la loro arte non era all'altezza di affrontare un tale soggetto.
- Da sopravvissuto di Auschwitz come ha recepito "Maus" di Art Spiegelman, che è un po' il libro di riferimento sul soggetto?
- All'epoca l'ho ricevuto come un pugno nello stomaco. Mi parlava di un mondo che non avevo conosciuto: il mondo ebraico polacco. D'altra parte, avendo ricevuto degli estratti di Maus apparsi su una rivista americana, avevo dovuto battermi coi miei compagni deportati che non avevano seguito il percorso di Art Spiegelman e non ammetterano il trattamento che ne faceva descrivendoli come animali. Non lo accettavano perché era un fumetto e perché consideravano che Spiegelman non ci accordasse l'importanza e il rispetto cui avevamo diritto. Egli aveva invece bisogno di quella "distanza" per ottenere una verosimiglianza che il disegno classico non gli poteva dare. E' evidente: il tratto, il disegno, non è una serie di parole. Personalmente io credo che egli abbia trova la formula giusta. Il Fumetto può ringraziare Art Spiegelman per quell'opera e la memoria della Shoah può anch'essa ringraziarlo di averla portata a persone che la ignoravano completamente.
- Lei conosce le riserve che noi abbiamo sull'albo Aushwitz di Corci. Tuttavia pone la questione della rappresentazione della Shoah. Non è che si rischia di ridurre questa terribile storia a un cliché?
- E' soprattutto un problema del lettore. Adorno aveva dichiarato "Dopo Auschwitz, non si può più fare poesia". Io credo al contrario che il poeta possa descrivere con meno parole, e molto meglio, delle situazioni che un autore normale non potrebbe sviluppare in uno spazio così ristretto. Con il Fumetto è la stessa cosa. Se il lettore non decide di fare il necessario sforzo di immaginazione, è perso. E' un gioco tra un autore, la materia che descrive e il lettore. Quando andate ad Auschwitz-Birkenau, se non ci mettete un minimo di sforzo - non parlo di conoscenza, parlo di comprensione - passate una domenica ad Auschwitz come se faceste una gita ad Amiens in un giorno di primavera.
- Le sue testimonianze evidentemene aiutano a supportare questa rappresentazione. Che ne sarà il giorno che lei non ci sarà più?
- Si trasformerà. In cosa, non lo so. Quello che mi inquieta è che un certo numero di storici si sono fatti "un'idea" della deportazione. E già oggi, quando si trovano di fornte a un deportato, hanno la faccia di dire "Cosa ne può sapere lei, che è stato solo ad Auschwitz?", mentre loro, gli storici, ne sanno, perché hanno letto i documenti... Io non sono follemente ottimsita sul modo in cui la gente conserverà la lezione di Auschwitz. Per un sì o per un no, si stravolge il senso delle parole. Si è risuciti persino a dire, per una crisi sanitaria "E' il genocidio dei polli". Così come a un congresso di notai si è parlato di "genocidio dei notai", solo per evocare i problemi che avevano col governo. C'è una deriva da non credere. I Grandi del Fumetto avrebbero potuto affrontare questo problema. Magari non è un soggetto adatto a Druillet, ma potrebbe esserlo per Tardi. Perché lasciare a Croci l'esclusiva su questo dominio? E' un peccato. [Intervista di Didier Pasamonik - (c) Didier Pasamonik]

 You can read the interview by Didier Pasamonik to Charles Baron about Shoah and Comic Art on the french magazine BD Magazine 5.

Articolo di afnews (se non altrimenti indicato) - Sabato, 22/1/2005
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