13 Novembre 2021 10:00

Disegnare è un duro lavoro, che rende liberi: intervista a Simone Massi, animatore resistente

Per introdurre Simone Massi abbiamo scelto di utilizzare la breve autobiografia contenuta nel suo (oggi non più attivo) sito web: – “… nasce a Pergola (Pesaro-Urbino) nel maggio 1970. Ex-operaio, di origine contadina, ha studiato Cinema di Animazione alla Scuola d’Arte di Urbino. Animatore indipendente, da 20 anni sta cercando -in maniera pulita- di fare diventare la sua passione per il disegno un mestiere. Nonostante le difficoltà ha ideato e realizzato (da solo e interamente a mano) una manciata di piccoli film di animazione che hanno partecipato a 805 selezioni e ottenuto 253 riconoscimenti nei festival di 70 Paesi del Mondo (dei 5 continenti). Rimbocchiamoci le maniche e dopo andiamo avanti. “

Per inquadrare la sua opera, nulla ci pare più efficace dell’analisi dello storico e critico Giannalberto Bendazzi, capace meglio di chiunque altro di comprenderla e “definirla” con efficacia: – “… il più interessante cineasta d’animazione italiano oggi vivente. Il suo è uno stile molto personale ma al contempo legato alle opere di un gruppo, di una corrente, che qualche anno addietro con una mia studentessa (Priscilla Mancini, autrice di una tesi di laurea dedicata a Simone Massi e di un libro sulla corrente: L’animazione dipinta. La corrente neopittorica del cartoon italiano, ed. Tunué 2014) definimmo neopittorica. Un gruppo molto legato alla regione in cui vive, alla scuola d’arte di Urbino ma anche all’epoca nella quale si trova inserito … L’Italia è un paese in precipitosa decadenza … morale, economica, spirituale, di identità e l’unica soluzione possibile, per chi possiede intelligenza e nerbo, per chi ha colonna vertebrale, è quella di chiudersi nella propria fortezza privata e testimoniare la propria esistenza, e quella della propria generazione, per vie artistiche e intellettuali … come la situazione dei monaci del Medioevo che si chiudevano nei monasteri e copiavano i testi latini e greci per le future generazioni.”

QUI potete trovare l’elenco dei film realizzati da Massi, tra cui ricordiamo qui almeno “La memoria dei cani” (2006), “Dell’ammazzare il maiale“, vincitore del David di Donatello nel 2012, “Animo resistente” (2014) e “L’attesa del maggio” (2015) – entrambi premiati ai Nastri d’Argento – oltre alle sequenze animate per il lungometraggio “La strada dei Samouni” di Stefano Savona (2018) che gli è valso il premio Flaiano (per la prima volta assegnato a un autore di film d’animazione). Tra le sue ultime fatiche il corto “L’infinito” (2020), ispirato all’omonima lirica leopardiana, realizzato in occasione del bicentenario del componimento, e la locandina di “Turn your body to the sun“, film documentario diretto da Aliona van der Horst che sarà presentato in prima mondiale all’IDFA International Documentary Filmfestival di Amsterdam (17/28-11-2021).

Citiamo anche il bellissimo inserto animato basato sul racconto di Jack London “Preparare un fuoco” per lo spettacolo “Ballata di uomini e cani” di Marco Paolini (2010) e quelli realizzati per “Occident Express” (Haifa è nata per star ferma)” (2020) di Stefano Massini con protagonista Ottavia Piccolo.

È stato ideatore e direttore artistico Animavì, Festival internazionale dedicato all’Animazione poetica che si è tenuto nella sua Pergola dal 2016 al 2019.

Al contempo testimone ed etnografo della sua terra, Simone Massi è anche autore di un “Abbecedario del dialetto pergolese e dell’alta Valcesano” (2020), e in questa intervista ci soffermeremo proprio sulla non irrilevante componente letteraria della sua poetica, approfittando dell’uscita, con i tipi di minimum fax, del volume, dal titolo emblematico, “Libro di disegni” (2021).

GZ: Il disegno è un tuo “compagno di viaggio” fin dall’infanzia: come potresti definire e/o raccontare questo legame?

SM: E’ un legame, dici bene. E come tale esige e dona, prende e da. Da un lato il disegno per me è ancora un gioco da bambini, la possibilità di sognare e costruirsi il mondo come più ci piace. Il mio è fatto di perdenti, di bambini, contadini e partigiani senza nome, di casolari, querce, campi lavorati e colline. E animali di ogni sorta. Dall’altro lato il disegno negli anni ha perso in spontaneità ed è diventato mestiere di pazienza, memoria, ragionamento, educazione al tempo. Un lavoro che stanca il braccio e la schiena, consuma gli occhi e riempie la testa di pensieri. La sera ci arrivo stanco come l’operaio ma a differenza di questo dormo male, perché come mi metto lungo arrivano le idee e i pensieri ad agitare il sonno. E’ una passione che consuma e tiene vivi, imprigiona e rende liberi. Il disegno di oggi per me è nero e bianco con delle macchie di rosso.

GZ: “Libro di disegni” celebra 25 anni di carriera: questo traguardo, e quest’opera, hanno un particolare significato per te?

SM: I lavori, quando li penso, mi sembrano tutti importanti e do l’anima per realizzarli ma poi finisce lì. A film o libro concluso non riesco più guardarli, mi imbarazza enormemente farlo. Il mio pensiero e le mie energie sono tutte per i progetti nuovi. “Libro di disegni” non nasce perché avevo bisogno di un’autocelebrazione ma molto più semplicemente perché non c’era. Cioè fino al 25 aprile di quest’anno non esisteva un libro con dei disegni che fossero miei per intero. Disegni cioè che fossero stati pensati da me, che nascessero dal mio vissuto e dal mio immaginario. E questo, proprio perché era passato un quarto di secolo, venticinque anni in cui ho prodotto tantissimo, mi sembrava strano, al limite dell’incomprensibile. Così ho pensato a un libro che andasse a riempire questo vuoto. L’ho costruito pazientemente, in oltre tre anni di lavoro, selezionando i disegni e contattando ad uno ad uno i ventidue autori che mi hanno donato i loro pensieri, i loro contributi. Poi ho mandato le bozze alla casa editrice, che all’inizio si è presa del tempo per pensarci. Novanta giorni di attesa in cui mi dicevo: alla peggio lo pubblico da solo e poi lo regalo a parenti ed amici.

GZ: A prescindere dalle necessità del momento, e malgrado il riconoscimento della tua predisposizione per l’arte grafica, sorge l’impressione che l’esperienza del lavoro manuale nel tuo caso sia in qualche modo, forse subliminale, stata “cercata” e perseguita per poter identificare gli strumenti e le modalità più adatte a poterla in seguito incanalare in una compiuta forma espressiva: c’è del vero in questa suggestione, o la consapevolezza è scaturita dopo, dal periodo urbinate?

SM: All’inizio non riuscivo a vedere bene, nel periodo urbinate era come se cercassi di liberarmi di quello che ero stato. Probabilmente pensavo che quello che avevo appreso nelle campagne e nelle officine non avesse nessuna connessione o peggio utilità nel nuovo percorso che mi accingevo a fare. Lasciando l’ambiente privilegiato e illusorio di Urbino ho fatto un’operazione in certo senso contraria, ho preso coscienza degli insegnamenti da tenere e di quelli da scartare. Questi ultimi non perché fossero sbagliati in sé, piuttosto perché poco adatti a me. Sono tornato a Pergola con occhi diversi e le idee chiare. Mi sono scelto dei professori che parlano in dialetto e vanno a pescare memorie in un passato talmente lontano da far apparire inverosimili le storie che raccontano. Ho fatto questa scelta per senso di appartenenza e con la consapevolezza che ero figlio di un mondo che scompare velocemente e che nessuno potrà studiare sui libri. Per cui al diavolo l’arte, se non mi fossi seduto ad ascoltarli i narratori e le storie della mia terra sarebbero spariti senza lasciare traccia. A quel punto è venuta fuori anche la tecnica, che è faticosa, e prevede l’utilizzo di attrezzi di ferro, di materia nera e bianca che sporca le mani. A pensarci adesso non poteva andare diversamente.

GZ: Negli storyboard contenuti nel libro pare esprimersi quel flusso di suggestioni, anche visive, che solo dopo porterà a una laboriosa e rigorosa strutturazione nell’animazione vera e propria. Traspare ciò che Norman McLaren definiva “l’essenza dell’animazione, ovvero non ciò che si trova in un disegno, ma quello che si crea fra disegni legati in serie” e che, già nei disegni principali e poi nel film vero e proprio, il movimento tenderà in qualche modo a “nascondere”, a “celare” alla coscienza vigile per consegnarlo all’inconscio e alle sue molteplici interpretazioni. Anche i vari tipi di materiali su cui sono tracciati (fogli sparsi, biglietti ferroviari, ecc..) paiono indicare una fase ancora molto “spontanea” della creazione, in cui dominano le “impressioni di settembre” (parafrasando la PFM…) e l’occhio “interno” del regista che “immagina” ciò che sarà… nei disegni il flusso, poi ricondotto nel piano sequenza, pare già “trattenuto” nella tecnica e nella “fatica” del gesto. Un tuo giudizio in merito.

SM: Lo hai spiegato talmente bene che posso aggiungere ben poco. E’ proprio questo metodo di lavoro, questa libertà, il motivo principale che mi spinge a fare il cinema d’animazione. Si vede distintamente quando questa libertà viene meno, nei lavori su commissione, quando giocoforza si è obbligati a prevedere e calcolare quello che non si può. Il lavoro ne risente, lo sento meno mio. Al punto che bisognerebbe inventarsi dei titoli apposta “un film quasi di Simone Massi” o “un film a momenti di Simone Massi“.

GZ: Le tue esperienze da illustratore: quali differenze (se ci sono) puoi rilevare per esempio in collaborazioni quali “La casa sull’altura” con Nino De Vita, “Buchettino” (Chiara Guidi), “Il topo sognatore e altri animali di paese” (Franco Arminio) o “Il Maestro” (Fabrizio Silei)?

SM: Il fatto è che io non sono un illustratore. Da troppi anni ragiono sull’immagine in movimento e ogni disegno che produco tiene conto del precedente e del successivo, cioè del prima e del dopo. Ci riallacciamo alla definizione di Norman Mc Laren, appunto. L’illustrazione è un’altro tipo di linguaggio, più vicino alla pittura forse, perché deve essere capace di raccontare una storia da solo, senza artifici. E’ un tipo di lavoro che mi mette a disagio perché intanto non puoi sbagliare e poi ti obbliga a un disegno catturato e ingabbiato, senza alcuna via di fuga, che si presta ad essere sbirciato e indagato spietatamente in ogni dettaglio. Non si è liberi di imbrogliare, mistificare, confondere e scappare, che è quello che poi ho sempre fatto in animazione.

Ecco, ti confesso che con l’illustrazione non mi ci ritrovo, mi sento imbarazzato, goffo, legato mani e piedi. Provo a compensare, a superare questo mio disagio producendo una mole di lavoro esagerato, disegni su disegni che poi sottopongo a Fausta Orecchio. “Uno buono ce ne sarà”, penso. Lei mi guida, mi consiglia, sceglie. Nel caso de “Il maestro” a un certo punto mi ha fatto capire con molta grazia di piantarla perché non la finivo più di disegnare. Per una illustrazione che è finita nel libro ce n’è un’altra mezza dozzina che è rimasta fuori.

GZ: Un autore che ha, per tua stessa ammissione, influenzato la tua poetica è Cesare Pavese: su quali suggestioni hai impostato il tuo lavoro sulle copertine delle riedizioni Ecra?

SM: Malinconia, solitudine, silenzio. Ho riletto tutti i racconti, mi sono concentrato sulle figure isolate, le ho viste immobili, a testa bassa o con lo sguardo fisso nel vuoto.

GZ: Personalmente, lo scrittore che mi viene in mente subito guardando (leggendo) le tue opere è il mio conterraneo Beppe Fenoglio, e soprattutto il folgorante incipit de “La Malora”: “Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sotto terra.” – ecco, al di là della più scontata analogia con le tematiche dell’universo contadino e operaio di cui siete entrambi testimoni e, in un certo senso, eredi, ciò che secondo me vi accomuna maggiormente è il lavoro “materico” e certosino sul linguaggio, scavato letteralmente fino alla radice e privato del superfluo fino a raggiungerne una sintesi agra e al contempo fulminante, quanto una rivelazione, o una sentenza.

SM: Quando, nel 1993, ho varcato la soglia della Scuola del Libro di Urbino ero un operaio che disegnava ed ero molto più colto di tanti coetanei che studiavano all’università. Avevo ascoltato un’infinità di dischi, visto centinaia di concerti e film d’autore. E poi leggevo moltissimo: giornali, riviste, fumetti e letteratura italiana e straniera Freud, Nietzsche, Kafka, Mann, Goethe, Hesse, Hemingway, Neruda, Garcia Lorca… Non avevo ancora letto Fenoglio ma ero pieno di Pavese, Calvino, Revelli. La passione per la letteratura e per la poesia è confluita da subito nei miei cortometraggi, a partire da quelli che ho realizzato negli anni della scuola. Di fatto non c’è un mio lavoro che non sia anche uno studio sulla parola e sul suono. Questo a partire dalla scelta dei titoli e dalla costruzione delle sinossi che da sempre si sviluppano in una-due righe e che si guardano bene dal raccontare il film. Si limitano, semmai, a dare delle suggestioni e ogni parola è faticosamente scelta, pesata e combinata con le altre, con un’attenzione all’equilibrio, alla fluidità e alla sonorità. Una cosa nuova, al punto che le mie sinossi per anni sono state contestate, irrise, o addirittura cambiate dagli organizzatori dei festival. E’ successo fino a non molto tempo fa e anche in festival importanti come quello di Torino: si arrogavano il diritto di decidere loro le parole da usare. Adesso la maggior parte degli autori ha abbandonato le sinossi chilometriche che ti facevano passare la voglia di guardare il film e di sfogliare i cataloghi. Lo hanno capito pure gli organizzatori dei festival, che in molti casi mettono un limite di battute.

Questo per quel che riguarda l’uso della parola, poi la laboriosità del cinema d’animazione ha fatto il resto, obbligandomi a scartare tutto il superfluo e a inserire i soggetti in spazi vuoti, isolandoli. Anche la tecnica dei graffi va in quella direzione, con il chiaroscuro che si ottiene scavando e togliendo quello che non serve. Un lavoro a sottrarre.

GZ: Il tuo legame col cinema è certificato, oltre che dal taglio registico delle tue opere, anche dai lavori realizzati per la Mostra di Venezia: anche qui emerge la tua personale visione, il rapporto con ciò che hai nell’arco della vita assorbito e ridefinito nella tua arte. Ne emerge un’estetica al contempo neorealista e “felliniana” (termine abusatissimo, scusa) che evita ogni facile arruffianamento verso il pubblico arrivando comunque a comunicare un sentimento profondo verso la Settima Arte: due parole su questo.

SM: L’estetica e la scelta di non fare nessun tipo di concessione sono la logica conseguenza di quello che sono e che negli anni ho visto, ascoltato, letto, amato. Gli animali ammazzati e squartati, le filastrocche e gli indovinelli, l’umiliazione e la miseria, le storie e i proverbi, il ferro e la lamiera, Gramsci e Che Guevara, i Jesus and Mary Chain e gli Screaming Trees, Rockerilla e Ken Parker, Fellini e Petri, il servizio di leva e la catena di montaggio: è stata questa, nel corso degli anni, la mia formazione. La scuola e l’animazione sono venuti dopo. Quando ho avuto fra le mani un foglio e una matita ero già un uomo e non c’era che da buttare fuori quel che avevo dentro. Con onestà, senza calcoli. Anche perché non potevo nemmeno immaginare che le mie opere potessero essere viste dal pubblico, in un cinema. Nei primi anni infatti, erano gli insegnanti della Scuola del Libro che iscrivevano e inviavano i lavori ai festival di cortometraggi. Io non sapevo nemmeno cosa fossero i festival e le prime volte che mi dicevano di una selezione o di un premio faticavo a capire. Nel mio particolare e singolare caso mi sento di dire che il cinema d’animazione ancor più che piacere di disegnare è un insieme di possibilità: quella di cambiare un destino che sembrava segnato, quella di ricerca e di espressione, possibilità infine di raccontare quello che sogni e che sei. In tutto questo il tener conto del pubblico (quale poi?) significava e significa mettersi una maschera da contabile e rinunciare a tutta una serie di straordinarie opportunità che possono essere riassunte con un altro paio di parole accentate: lealtà, libertà.

GZ: Un altro elemento delle tue opere che ritrovo nei libri di autori come Pavese, Rigoni Stern, Fenoglio è la quasi totale assenza di sorrisi e momenti di gioia esternata, come se i tuoi personaggi incarnassero una sorta di pudore/reticenza a esprimere leggerezza in quanto rappresentanti di un mondo, di un’epoca che se li poteva permettere solo raramente, in privato o in occasioni preposte, “legittimate”, pena immediate ritorsioni del destino o di chi ne amministrava le leggi. Eppure hai dichiarato che il tuo lavoro in qualche modo ti rende sereno… a che profondità va cercata questa “allegria”, oltre il rigore della lavorazione e del messaggio principale? Anche il ritiro dei festival dei tuoi pluripremiati “Sorci Verdi” sembra confermare una concezione dell’animazione che rifugge dall’umorismo esplicito e ipercineticità tipici di quella mainstream per non farsi “ghettizzare” nello stereotipo dei “cartoni per bambini”. Per quanto ciò rappresenti un ulteriore segno della tua coerenza personale, non rischia al contempo di trasformarsi in eccesso di “autocensura”?

SM: La mancanza di espressività dei personaggi è stata una cosa ragionata e voluta. Un po’ ha inciso la provenienza, il carattere taciturno dei contadini marchigiani, un po’ l’opera dei pittori del Trecento e del Quattrocento, in particolare quella di Giotto e Piero Della Francesca.

Ma la ragione principale che svuota di emozioni, riso e parola i miei personaggi è data dal fatto che questi sono fatti di carta. Si tratta di visioni, di immagini, di ricordi che sono consapevoli della loro natura e non possono che starsene fermi, immobili, in attesa di incontrarci. Quando sentono la nostra presenza si voltano lentamente e ci guardano, niente più che questo.
Per il resto confermo quanto detto in precedenza, il lavoro mi rende sereno e mi tormenta al tempo stesso. Sono sereno mentre scavo per cercare il chiaroscuro, non lo sono affatto nelle fasi iniziali, quelle dell’ideazione, della quadratura dei vari cerchi che di volta in volta si formano e si intrecciano fino a formare una sorta di cantilena, di filastrocca.
In generale sono contento perché faccio un lavoro che amo, a casa mia, vicino ai bambini e a mia moglie. Non mi pesa lavorare il sabato e la domenica e non sono in tanti a poter dire la stessa cosa.

Quello sui “Sorci verdi” è un discorso un po’ più complesso ma non mi costa niente spiegarlo. Sono lavori che risalgono al primissimo periodo, quando sperimentavo ed era giusto farlo. All’epoca fui influenzato da due fattori, entrambi parecchio ingenui: una retrospettiva di Ferenc Cako, animatore ungherese che alternava film d’autore a cartoni animati comici, pensati per i bambini. E poi pensavo, mi illudevo, che saper fare il cartone animato tradizionale mi avrebbe aiutato. Visibilità, lavoro, quelle cose lì. Train in vain, cantavano i Clash. Nel 2001 ho lasciato gli studi di animazione commerciale e mi sono messo a fare quello che davvero avevo a cuore. In quell’anno licenziai l’ultimo episodio dei “Sorci verdi”, “Pittore, aereo” e “Tengo la posizione“. Il secondo feci a pezzi il primo, il terzo lo disintegrò. Trovata la strada, il cartone animato mi è apparso totalmente privo di senso, non era per quello che nel otto anni prima avevo lasciato la fabbrica per iscrivermi alla Scuola del Libro di Urbino. Così i “Sorci verdi” sono usciti dal mio lavoro. Non hanno nemmeno trovato posto in dvd e raccolte, ma non per censura: semplicemente la qualità delle riprese era mediocre. Per poterli mostrare, per poterli inserire nei cofanetti che sono usciti (“Poesia bianca” e “Nuvole e mani”, n.d.r.) avrei dovuto rifare le scansioni, la colorazione al computer, il montaggio, la sonorizzazione… un lavoro immane e poco sensato, appunto.

La piccola personale rivoluzione non fu mai capita da certi critici, probabilmente perché hanno le orecchie da Topolino sopra la testa e sospendono la loro professione davanti allo specchio. Si trattava, a parer loro, di un salto nel buio, rinunciare al premio sicuro nei festival per una forma di racconto e delle tematiche che non avevano niente a che fare col cinema d’animazione, quelle della Resistenza e della civiltà contadina. Nessuna possibilità di riuscita dunque, anche perché a differenza di altri colleghi non avevo le spalle e il conto in banca coperti dall’insegnamento o da un’altra professione.

E invece no. Ero sicuro di poter riuscire, perché mi conosco e il mio fine non è mai stato quello di diventare un’artista o di avere successo. Tutto quello che volevo era disegnare ciò che avevo a cuore, senza tradire quel che sono sempre stato: un operaio prestato al disegno. Era questo il senso della mia presenza nel mondo del cinema d’animazione, si doveva riuscire per forza.

GZ: La Francia è oggi una delle principali realtà produttive in campo animazione: una delle principali pecche italiane è quella di non dare riconoscimento e rispetto alla figura dell’artista in generale (salvo se inserito nel circuito ufficiale/mainstream) e, in particolare, a quella dell’animatore. Nella tua esperienza personale con Sacrebleu hai percepito – sempre che lo cercassi – un autentico rispetto verso la (tua) professione?

SM: Vorrei tanto dirti di sì ma non è così che è andata. Al punto che basta scorrere l’elenco dei lavori successivi per vedere che ho preferito tornare all’autoproduzione piuttosto che lavorare a quelle condizioni.
La verità è che con i produttori e i festival francesi non riesco proprio a trovarmi, si sono convinti che il cinema d’animazione lo abbiano inventato e sia loro esclusiva proprietà, ti ricevono come faceva un tempo il padrone con il contadino.

GZ: Dopo i Nastri, il David e il Flaiano, pensi ancora che le istituzioni non si interessino al tuo lavoro? O ritieni, e non sei il solo, che elargire premi sia il miglior modo per “disinnescare” un autore non allineato? Dopo Animavì, ora hai inaugurato con molti dei tuoi storici compagni di viaggio l’esperienza di ALMA-Associazione Libera Marchigiana Animatori: quali sono le vostre aspettative/speranze?

SM: Se c’è una cosa di cui sono sicuro è che le istituzioni e i produttori non si interessano minimamente ai miei progetti. La sensazione è che dipenda più dalla persona che sono che non dai progetti stessi ma questo conta poco. Conta invece il fatto che in ventisei anni di attività un solo cortometraggio ha avuto una produzione. Una produzione tribolata e dimenticabile, che sventolava pomposamente e ridicolmente bandiera francese. I premi vinti a parer mio non fanno che rendere ancora più inspiegabile il disinteresse di cui sopra. Se un autore porta regolarmente risultati perché i suoi progetti non vengono sostenuti? E’ una domanda che andrebbe girata a tutti i produttori che mi hanno detto no, che hanno detto sì e poi sono spariti, a quelli che non si sono nemmeno degnati di rispondere. Tanto per dire, sono abituato a cavarmela da solo e col poco che ho a disposizione, non sarà questa indifferenza a fermarmi.

ALMA è prima di tutto un tentativo da parte di disegnatori schivi e isolati di fare gruppo e unire le forze. La speranza è che insieme si riesca a far sentire la nostra voce. E bisogna gridare forte perché nella nostra regione sono in tante le autorità che oltre ad essere deboli di vista sono anche incredibilmente dure d’orecchi.

Per saperne di più sul cinema di Simone Massi:

L’animazione dipinta. La corrente neopittorica del cartoon italiano / Priscilla Mancini – ed. Tunué (2016)
Conversazioni animate / Maria Pia Santillo – ed. Corraini
Poesia Bianca. Il cinema di Simone Massi (2010) a cura di Roberto Della Torre, Fondazione Cineteca Italiana ISBN 978-88-904706-0-8
Nuvole e mani. Il cinema animato di Simone Massi (2014) testo di Fabrizio Tassi, edizioni Minimum Fax ISBN 978-88-7521-607-8