30 Agosto 2019 10:00

Karabash, una visione dell’apocalisse ambientale: intervista a Carolin Koss, vincitrice del premio Donne Si Fa Storia

Intervista alla regista Carolin Koss
vincitrice del Premio speciale DSFS #2
EDERA FILM FESTIVAL 2019

Il riconoscimento verrà assegnato sabato 31 agosto alle ore 15 nel corso di una cerimonia che si terrà nell’ambito della 76a Mostra del Cinema di Venezia presso lo Spazio Regione del Veneto – Hotel Excelsior, Lido di Venezia, nell’ambito della 76^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. A consegnare il premio sarà il presidente di giuria Michel Ocelot, premio César 2018 per il lungometraggio animato “Dilili a Parigi”.

Proponiamo qui un estratto dall’intervista a Carolin Koss, la regista vincitrice del premio con il documentario “Copper Mountains“: la versione integrale sarà presto disponibile sul sito del progetto Donne Si Fa Storia.

Carolin Koss è anzitutto un’artista visuale tedesco-finlandese che vive e lavora a Helsinki, dallo stile e dalla poetica profondamente radicati nell’espressionismo tedesco e fortemente attratta dal minimalismo finlandese. Koss lavora con vari strumenti e linguaggi al fine di realizzare opere contemplative e di alto valore estetico che incarnano “paesaggi dell’anima” e fondono realismo e componenti oniriche. Le sue opere mirano a risvegliare il più possibile nel pubblico una nuova consapevolezza ambientale, affascinandolo attraverso il loro linguaggio simbolico e le immagini stilizzate quanto espressive. Si è diplomata all’Accademia finlandese di Belle Arti di Helsinki nel 2014. I suoi film e opere visuali sono stati proiettati in varie mostre internazionali e festival cinematografici (Helsinki, Stoccolma, Riga, Berlino, Venezia, Atene, Londra, Addis Abeba, New York, Treviso). Koss è stata recentemente nominata per il “Young Achiever’s Award” ai Golden Women Awards di Helsinki, e ha vinto il 1 ° premio allo Screen & Sound Fest di Cracovia; le è stato assegnato inoltre il “Hope Award per i nuovi talenti emergenti” al Film Festival di Tallin e uno dei suoi video è stato scelto come finalista in un concorso promosso dal famoso gruppo dei Radiohead.

Cosa significa essere una regista donna, quali gli elementi di forza e quali le criticità con cui hai avuto a che fare dirigendo il tuo documentario (le riprese in loco, la gestione del gruppo, ecc.)?
In realtà, inizialmente non avevo intenzione di girare un documentario. Dato che sono anche un’artista, avevo in mente di realizzare un’opera visuale fiction su un mondo distopico distrutto dall’inquinamento e intanto pensavo di raccogliere alcuni materiali per un’altra video installazione. Stavo cercando sul web immagini di paesaggi desertici e inquinati, e mi sono imbattuta in Karabash.
La difficoltà maggiore per me non è stata legata all’essere donna, ma piuttosto al non capire la lingua russa.
Dato che ero da sola a fare le riprese, la sfida maggiore è stata filmare le interviste non capendo cosa dicessero le persone mentre parlavano: abbiamo dovuto ricomporle poi durante il montaggio finale, 
una volta tradotte. Avevo un amico russo produttore e giornalista che poneva le domande alle persone, un autista e un assistente che mi hanno aiutato in tutte queste mansioni.
Ci è stato offerto aiuto da parte del gruppo degli attivisti locali, che si stava battendo per fermare la costruzione della nuova cava vicino a Chelyabinsk. Abbiamo dovuto girare di nascosto, con la paura di perdere tutto il materiale in caso fossimo stati arrestati. In tre occasioni il nostro lavoro ha destato sospetti, e le autorità dalle fabbriche di Chelyabinsk, Karabash e Magnitogorsk sono subito intervenute a verificare e chiedere cosa stavamo facendo. Abbiamo spiegato che eravamo solo turisti.

Chi erano i tuoi collaboratori nel film? Quanti uomini e quante donne? Con quale competenza professionale?
La mia squadra era alquanto ridotta, solo sei elementi me compresa. Tre donne e tre uomini, tutti provenienti dal cinema, dalle arti e dal giornalismo.

Durante il tuo viaggio a Karabash hai documentato gli scioccanti effetti dell’inquinamento ambientale causati dall’eccessivo sfruttamento industriale e hai intervistato uomini e donne di generazioni diverse. Hai riscontrato differenze sostanziali nelle loro risposte o reazioni alle domande più scomode?
Circa il 30% delle persone cui abbiamo chiesto un’intervista hanno rifiutato, poiché temevano le conseguenze che potevano derivare dal parlare apertamente di questa situazione. I più anziani apparivano ormai senza speranza e rassegnati, ma al contempo si dimostravano più aperti nel parlare di queste problematiche, probabilmente poiché ritenevano di non avere più molto da perdere. La generazione di mezzo sembrava più coinvolta e interessata soprattutto al futuro dei propri figli e nipoti. I più giovani ostentavano maggiore ottimismo ma anche una certa inconsapevolezza della gravità della minaccia, e talvolta mostravano di essere alquanto condizionati dalla propaganda di regime.

Aggiornamenti da Karabash? Come sta andando?
Non molti. Per quanto ho potuto sapere, non ci sono stati molti progressi riguardo ai sistemi di purificazioni del sito industriale di Karabash. Quindi la situazione risulta alquanto stagnante, ma almeno per quanto riguarda la costruzione dell’impresa mineraria di Tominskij Gok vicino a Chelyabinsk, i lavori pare abbiano subito una battuta d’arresto a seguito del gran numero di proteste, e ora Putin stesso nutrirebbe dei dubbi sulla sicurezza di questo progetto. Dunque, gli sforzi degli attivisti hanno finalmente ottenuto qualche risultato.

Copper Mountains” parla di temi di estrema urgenza e criticità e potrebbe risultare per certi aspetti un film “scomodo”. Come sta andando la distribuzione del film? Quali canali state utilizzando? A quale pubblico si rivolge il film?
Dato che siamo un team così ridotto, la distribuzione all’inizio è stata relativamente lenta. In seguito abbiamo avuto più tempo per segnalare il film ad un numero maggiore di festival, e stiamo anche provando a mandarlo in onda sulle televisioni nazionali nordiche e di altri Paesi europei. Abbiamo anche in programma di mostrarlo nei cinema indipendenti finlandesi e tedeschi, collaborando con Green Peace per portarne il messaggio fino a San Pietroburgo. Abbiamo ancora qualche timore nel proporlo in Russia: ci serviranno ulteriori ricerche e una più stretta sinergia con Green Peace per poterlo mostrare senza pericolo…anche per noi! Quindi principalmente ci stiamo concentrando sul circuito europeo e contiamo di poter arrivare a proporlo in Russia, in un modo o nell’altro, considerando anche la distribuzione internazionale allo scopo di aumentare il più possibile il grado di consapevolezza sui temi trattati.

Durante un viaggio nella piccola città di Karabash tra i monti Urali, l’artista e cineasta Carolin Koss si è sentita in dovere di catturare gli effetti scioccanti dell’inquinamento ambientale causato dall’eccessivo sfruttamento delle miniere di rame. Ha iniziato quindi a intervistare gli abitanti del luogo, che chiamano questo posto apparentemente post-apocalittico “casa”.
Nel suo viaggio attraverso l’area circostante, ha incontrato storie strazianti di sopravvivenza, sconforto, trasformazione e resilienza. Evitando ogni deriva sensazionalista, facendo ricorso a uno stile livido e allucinato che ricorda il miglior cinema di David Lynch, Copper Mountains racconta la storia vera di una realtà inquietante attraverso immagini dolorosamente belle.

La città di Karabash, nella provincia russa di Chelyabinsk, è uno dei luoghi più inquinati della Terra. In città opera una fonderia di rame, costruita più di cento anni fa, e i suoi rifiuti tossici hanno causato un enorme inquinamento e gravi problemi di salute agli abitanti della regione.

Dal 1910, quando l’impianto ha iniziato a funzionare, più di 180 tonnellate di biossido di zolfo e di metalli pesanti sono state rilasciate nell’aria ogni anno. Le foreste, i fiumi, la terra hanno un colore arancione a causa dei residui della lavorazione del rame e del ferro, la cui concentrazione è 500 volte superiore alla norma. Le immense emissioni di anidride solforosa e il particolato atmosferico fortemente inquinante sono ritenuti responsabili della maggiore incidenza tra la popolazione di malattie della pelle, cancro, ictus e malformazioni congenite. Un’indagine condotta nel 1994 dall’Istituto Provinciale di Chelyabinsk per la salute pubblica e l’ambiente ha rilevato che i bambini di Karabash sono notevolmente più piccoli rispetto ai bambini del gruppo di controllo e presentano 3.5 volte di più difetti alla nascita, 2.7 volte di più malattie della pelle e inoltre soffrono di avvelenamento da metalli pesanti.

Karabash nel 1970 era una città di 70 mila abitanti, attualmente ce ne sono 16 mila. Chi può fugge da questo inferno, ma la maggior parte degli abitanti non ha possibilità di andare via e la loro vita media è di 45 anni. Gran parte della città, quella sotto vento rispetto all’impianto, fu evacuata negli anni a causa della forte concentrazione di diossina. Oggi vi rimangono solo scheletri di una città fantasma.

Inoltre la città è divisa in due da un’enorme montagna nera di detriti della lavorazione del rame chiamata Black Slag. Misura venti metri in altezza, più di due chilometri in lunghezza e le sue polveri costituiscono una continua minaccia per la popolazione, soprattutto quando si alza il vento.

Alla fine degli anni ’80 sotto pressione di diverse ONG ambientaliste la fonderia venne chiusa e la zona venne riconosciuta anche dal Ministero dell’ambiente russo come “zona di disastro ecologico”. Ma tutta la città dipendeva dall’industria del rame e così la popolazione si ritrovò senza lavoro. Così nel 1998, sotto la pressione della popolazione, il governo fu costretto a riaprire la fonderia. Ma l’impianto fu riaperto senza alcun implemento nei livelli di sicurezza e di valutazione ambientale. A tutt’oggi il territorio circostante appare completamente bruciato, a causa del biossido di carbonio: la fonderia di rame ha trasformato la zona in un inferno vivente.

(testo dal sito web di Pierpaolo Mittica – foto dal web)

Una storia che ci riguarda tutti, e che dovrebbe fare (molta) paura.

E rabbia.

E, soprattutto, impegnarci affinché quello di Karabash non diventi il “paesaggio finale” di tutto il pianeta.