22 Dicembre 2016 11:00

Per la prima volta a colori dal 1929!

Così la Moulinsart promuove l’uscita della versione a colori della primissima avventura (ingenua e discutibile da diversi punti di vista) di Tintin, l’eroe molto boy-scout creato da Hergé. Nel 1929, per l’appunto.

Dire che erano altri tempi è poca cosa. Bisognerebbe davvero contestualizzare, nel tempo e nello spazio, per capire quel racconto, lungo quanto poco strutturato, richiesto dal datore di lavoro del giovane Hergé, l’abate Wallez, rappresentante di una ultra destra cattolica che voleva educare le giovani menti utilizzando le capacità artistiche di Georges Remi (in arte Hergé). Voleva che il ragazzo, che di fatto stava appena imparando a raccontare a fumetti, spiegasse com’era la vita nella Russia stalinista, così come gli avrebbe poi chiesto di narrare il ruolo del Belgio nel Congo, o di mettere in evidenza i difetti del capitalismo americano. A questo scopo serviva un giovane reporter, qualcuno in cui i lettori potessero identificarsi. Tintin, in effetti, è, in un certo senso, la reincarnazione di Totor il boy scout, personaggio che Hergé aveva utilizzato per simpatici raccontini umoristici per la rivistina degli scout di cui faceva parte.

Intendiamoci, nel caso dell’avventura in Russia, purtroppo, la descrizione si sarebbe rivelata drammaticamente corretta. Era infatti basata sul vero reportage di un vero giornalista. Ma lo scopo dell’abate era, chiaramente, ben altro: l’indottrinamento dei più giovani all’anticomunismo, all’anticapitalismo, alla bontà del colonialismo belga in Africa e via così.
Hergé esegue il mandato del direttore de Le Petit Vingtième, ma lo fa mescolando avventura e umorismo. Contestualmente, comincia, compiendo parecchi errori, a padroneggiare questo particolare strumento di comunicazione e narrazione che è il fumetto. Il racconto che ne vien fuori non è certo un capolavoro, da nessun punto di vista, ma ha un successo incredibile e totalmente imprevisto.
Ci vorranno ben tre avventure perché Hergé possa finalmente liberarsi dal controllo diretto del fascistissimo abate e partire, finalmente, per altri lidi narrativi e con maggiore consapevolezza dello strumento. Gli ci vorrà ancora altro tempo per cominciare a uscire dall’ambiente culturale di quell’epoca e di quel luogo, e dai relativi obbrobri del senso comune popolare di allora. Stiamo parlando di un periodo nel quale razzismo, sessimo, colonialismo, antisemitismo, pregiudizi di ogni sorta, ideologie basate su odio e violenza come fascismo, nazismo, comunismo stalinista e troppo altro, erano parte integrante della cultura popolare e contribuirono alla tragedia totale della seconda guerra mondiale.

Comprensibile che Hergé non avesse voluto far ristampare questa storia insieme alle altre, a suo tempo: ne riconosceva tutti i limiti e i difetti. Ne accettò solo una ristampa per collezionisti nel 1973, per completezza storica, ma non la riteneva degna di altro. Aveva ragione, a mio parere. Per lui fu un esperimento, forse addirittura solo “lavoro su commissione”, diciamo così, e allora non pensava che quello sarebbe diventato il suo vero lavoro.

Un albo che tuttavia fa parte della storia del fumetto e mostra le radici, approssimative e incerte, di quel che sarebbe venuto in seguito e del segno che l’opera successiva di Hergé avrebbe lasciato nel mondo del fumetto europeo e non solo.

Insomma, non lo consiglierei a chi volesse per la prima volta avvicinarsi a Tintin, ecco. E questo discorso vale per qualunque altro autore di fumetti (con le dovute rarissime eccezioni): gli inizi sono di solito quel che sono, per quanto possano essere emotivamente interessanti…