22 Dicembre 2016 09:00

Con Louise l’inverno è un bicchierino di ratafià di fronte al mare

Jean-François Laguionie vive (felicemente) in Bretagna ormai da anni, e la sua ultima “fatica” cinematografica è stata essenzialmente concepita e quindi (co)prodotta in questa terra magnifica e peculiare; a Rennes, infatti, risiedono gli studi JPL Films (La Petite Casserole d’Anatole) ma l’animazione, in pittorico 2D “tradizionale”, è stata realizzata anche nei pressi della cittadina della Côtes-d’Armor in cui risiede il regista.

 

Malgrado ciò, “Le stagioni di Louise” (Louise en Hiver), che esce oggi nelle sale italiane grazie alla benemerita distribuzione della bolognese I Wonder Pictures (Yo Yo Ma e i Musicisti della Via della Seta), non è ambientato nel Paese di Broceliande e di Asterix: l’immaginaria cittadina balneare di “Biligen-sur-Mer”, con i suoi orologi fermi, le sue maree e le bianche falesie visibili all’orizzonte, ricordano decisamente di più la Normandia cara ai ricordi d’infanzia di Laguionie, il quale mai come in questo film pare calarsi nel suo personaggio con una comprensione e una partecipazione emotiva che regalano all’altrimenti sin troppo laconica Louise una profondità espressiva fatta solo di gesti minimali e sfumature che la fluida quanto controllata animazione sa rendere in maniera perfetta.

Come già ci era parso di riscontrare nell’ultimo (?) volo animato di Hayao Miyazaki (Si alza il Vento), in cui il Maestro prendeva congedo uno a uno da tutti i suoi amati-odiati “compagni di viaggio”, pure qui l’autore dà l’impressione di voler disseminare l’ambiente che circonda Louise e le sue memorie “in libera uscita” di elementi già incontrati (e apprezzati) nelle sue opere precedenti: i gabbiani simili a psicopompi che minacciano tragedie imminenti (o forse simboleggiano una tensione interna che preme per uscire, come nel corto capolavoro “La traversée de l’Atlantique à la rame”, palma d’oro a Cannes nel ’78), gli edifici che nella loro essenzialità riecheggiano Magritte e De Chirico, popolati da figure quasi senza volto che appaiono al contempo minacciose e amichevoli; gli esseri umani, in generale più simili a bozzetti non finiti per un quadro (come nel complesso e immaginifico “Le Tableau“, 2011) perennemente alla ricerca del proprio autore, che a persone in carne e ossa; soprattutto, la colossale, metafisica e a suo modo “dialettica” montagna di rifiuti (di ogni tipo, dimensione e, probabilmente, epoca) scaraventati sulla spiaggia dalla tempesta che isola Louise e, contemporaneamente, le regala uno scampolo di autosufficiente libertà.

La stessa enigmatica “archeologia consumistica” si era palesata in tutta la sua evidenza e importanza “interattiva” per lo svolgimento della narrazione in quel film imperfetto quanto a suo modo affascinante che è “Gwen et le Livre de Sable”, una sorta di instabile miscela tra “Mad Max”, “Nausicaa della Valle del Vento” e un racconto di Dino Buzzati, in cui il deserto della nostra civiltà risultava ancor più desolato in contrasto con i giganteschi feticci di un remoto “vivere quotidiano” sparsi tra le dune quali vestigia di giganteschi guerrieri caduti in battaglia o di antiche città ormai irrimediabilmente silenti.

Louise, in maniera del tutto implausibile, scivola su enormi materassi che la rimbalzano leggera qua e là, scova a portata di mano scatole di occhiali della sua misura e pronti per l’uso, pile di quotidiani del giorno; insomma, la pantagruelica discarica della spiaggia pare essere attrezzata con tutto ciò che le occorre, come se l’anziana signora si trovasse in realtà in una sorta di limbo in cui tempo e logica non hanno più nessuna importanza. Proprio come nella società neo-primitiva di Gwen, in cui procurarsi le piume dello struzzo di cui ci si nutre è tutto ciò che conta.

Ma di che cosa ha bisogno, in definitiva, la nostra Louise?

Perché improvvisamente la sua esistenza quieta e senza scossoni si ritrova sconvolta? Non tanto dall’impossibilità di tornare a casa, quanto dall’assalto di memorie, fantasmi e voci lontane che, pur nella loro apparenza quieta e talvolta carezzevole, sembrano condurla immancabilmente di fronte alla necessità di riconoscere una sorta di irrevocabile colpa che pare pesare su di lei e, in qualche modo, giustificherebbe anche il suo “abbandono” nella cittadina deserta in cui nessun soccorso, nessun tentativo di contatto nei suoi confronti si palesa nel lungo (ma sarà vero?) periodo in cui lei rimane da sola.

“Devo capire perché non tornano. Che cosa gli ho fatto?” – Oppure: “La vecchiezza, ecco cos’è. Hanno paura che sia contagiosa.” – queste le domande, invero non così impellenti, che Louise si pone di tanto in tanto, e a cui prova a dare risposta con tipica saggezza canina il suo imprevisto “compagno di naufragio”, il cane vagabondo Pepe, il quale giustamente le fa notare come gli animali non è che non pensino allo scorrere inesorabile del tempo ma, semplicemente, “non ne facciamo una questione di Stato.”

Frase analoga, del resto, aveva usato la stessa Louise per commentare il trambusto odierno comparato alla visione un po’ fatalista e un po’ rassegnata delle persone “di un tempo”, quelle che “non facevano tante storie” quando toccava affrontare degli imprevisti, seppur pesantucci come questo; e in effetti la nostra se la cava assai bene nel riappropriarsi di competenze e intraprendenza che da tempo giacevano sopiti sotto gli strati di polvere della sua condizione domestica quotidiana.

Attenzione, però: se è vero che la storia di Louise, rivissuta attraverso ricordi che si fanno vividi come spettacoli cinematografici all’aperto, è fatta di abbandoni dolorosi (su tutti quello, pur provvisorio, della madre egoista) e di macabri “primi impatti” con la realtà circostante (vedi l’incontro con la nonna, con la gallina sgozzata sul tavolo e la pendola che rintocca minacciosa nella stanza), Laguionie non indulge mai sull’elaborazione dei presunti “traumi” dell’infanzia e della gioventù, che la vita stessa spinge a lasciarsi alle spalle in fretta: la piccola Louise si affeziona in fretta alla nonna e al suo mondo rurale al punto da diventarne parte integrante (armata di fionda dà la caccia agli uccelli, mancandoli regolarmente – forse non per caso) e a rifiutare a propria volta la genitrice ritornata a prenderla insieme al nuovo compagno.

La morte non spaventa Louise, da giovane come nella “maturità” ella pare piuttosto “flirtare” con essa, come quando, insieme all’amico e futuro innamorato si sporge oltre il bordo della falesia a strapiombo sul mare mescolando paura e senso di ebbrezza come solo i bambini sanno fare; o anche ne diventa confidente, come nel caso del paracadutista Tom, scheletro gentiluomo appeso a un albero, uno dei tanti ragazzi venuti da lontano per rimanere per sempre su quelle scogliere e che ora, sotto sotto, trova conforto nell’assistere alla monellerie di Louise e, successivamente, alle sue schermaglie amorose di cui è anche l’involontario complice.

“Ero davvero cattiva, eh?” – si chiede (CI chiede?) l’ormai canuta Louise.  Ma le sue sembrano sempre le domande che si farebbe una Pippi Calzelunghe  invecchiata a sorpresa la quale, non più forte e spavalda come un tempo, sente il dovere di far credere agli altri di essersi finalmente “pentita” di qualcosa; in realtà, anche al processo che, oniricamente, si troverà a sostenere di fronte a un tribunale di uccelli (rieccoli!), la sua rimarrà sempre l’espressione di una discola impenitente. Forse, è proprio questo che coglie il suo (assai presunto) avvocato difensore quando ricorda alla Corte che preme per “condannarla alla solitudine eterna” che “le persone felici non hanno una storia“, e dunque, neanche qualcosa da ricordare in quanto si limitano a vivere senza chiedersi il perché.

Ecco, qui Laguionie assesta, secondo chi scrive, il suo autentico colpo spiazzante: può davvero una donna prima abbandonata dalla madre e poi “fatta sposare in quanto carattere troppo difficile”, il cui ricordo del marito e padre dei suoi figli è quello di “un uomo veramente brutto”, ecco, può questa donna essere stata “felice”?

Laguionie non fornisce una risposta. Si limita a sorridere sornione come la sua protagonista, forse sapendo, come lo sapeva Tom e come, in fondo, ciascuno sa dentro di sé, che “tutto era importante, e tutto torna al suo posto”, ed essere anziani, tutto sommato, può anche voler dire avere (di nuovo) un sacco di tempo a disposizione… se si sceglie di stare, di rimanere nel mondo.

E, credetemi, a volte ne vale la pena anche solo per gustarsi un film così, dolce e gradevolmente pungente come un bicchierino di ratafià gustato su una terrazza in riva alla spiaggia, in una mite giornata d’inverno. Stagione bellissima per vedere il mare.

Chiedete a Louise.

Ultima nota per il doppiaggio: mi rincresce doverlo dire, ma ho trovato più aderente ed efficace la doppiatrice della versione originale, l’attrice Dominique Frot, rispetto al peraltro diligente lavoro della nostra Piera Degli Esposti: pur prendendo quota nella parte centrale del film, mi aspettavo maggiore “partecipazione emotiva” da parte sua, invece il risultato finale suona come la lettura un po’ monotona di un diario ed è un peccato, visto le potenzialità espressive del personaggio. Un’occasione persa, succede.

E, ultimissima spunta, forse mantenere il titolo letterale “Louise in inverno” avrebbe reso meglio lo spirito di un film che, più che raccontare la vita e, appunto, le “stagioni” di una donna, ne descrive a tinte acquerellate il placido scivolare in una fase dell’esistenza in cui tutto può ricominciare perché si sono finalmente chiusi i conti con il proprio passato.

Una nuova primavera è forse alle porte, ma per ora: godiamoci (tutti quanti) questo inverno così dolce…