“Vivian era misteriosa. Portava camicie da uomo, imprecava in francese, conosceva a memoria tutti i racconti di O. Henry, camminava come un uccello. E così, come un trampoliere dalle lunghe gambe, ha attraversato il suo tempo fotografandolo.” – Un diario. Il diario di Vivian Maier. Scritto non con la penna ma con la macchina fotografica, la sua inseparabile Rolleiflex. Sempre al collo, sempre sul cuore. Occhio speciale per ritrarre i bambini dei quali come tata si prendeva cura; le persone comuni incontrate per strada; i quartieri delle città a lei più care, New York e Chicago; i luoghi lontani meta dei suoi numerosi viaggi. E dietro ogni scatto -centocinquantamila negativi, e migliaia di pellicole non sviluppate- l’interesse per l’altro, gli altri.
Questa introduzione, tratta dal sito dell’editore Orecchio Acerbo che dal 3 marzo 2016 manderà in libreria il nuovo albo illustrato di Cinzia Ghigliano, Lei, Vivian Maier (acquistabile on line già dal 20 febbraio con lo sconto del 20%), sarebbe di per sé già efficace nel comporre un ritratto di questo misterioso e sfuggente personaggio, che ha parlato di sé quasi esclusivamente attraverso il gelido e al contempo accogliente diaframma dell’obiettivo fotografico…
Qualche settimana fa, mi sono recato a Milano per vedere la mostra Vivian Maier. Una fotografa ritrovata ospitata dalla Fondazione Forma di Via Meravigli 5. Ho scattato alcune foto, e mi scuso in anticipo per la pessima qualità delle medesime: io non sono mai stato un bravo fotografo, ma in questo caso mi è parso abbastanza ironico che un’artista come questa, abituata a “carpire” le proprie immagini perlopiù a ignari soggetti, oggi si ritrovasse, analogamente, in balia degli scatti di sconosciuti, spesso decisamente meno avvezzi di lei all’uso dell’apparecchio.
La mia personale galleria:
“We have to make room for other people. It’s a wheel. You get on. You go to the end. And someone else has the same opportunity to go to the end. And so on. And somebody else takes their place.” Vivian Maier
Non so quale fosse questo il senso esatto di una delle poche considerazioni con certezza attribuibili all’artista in questione, ma leggendo queste parole mi è venuta in mente immediatamente Mary Poppins.
O, meglio: la sua autrice, Pamela Lyndon Travers.
Only connect. E’ il titolo di uno dei più significativi saggi di questa scrittrice, per molti versi sconosciuta e incompresa proprio come lo fu (volontariamente?) Vivian Maier: contenuto nella raccolta What the bee know (Codhill Press, 2010), è forse la vera, autentica “stele di Rosetta” per comprendere davvero l’opera e il pensiero – e forse la personalità – della Travers, per la quale ogni cosa, ogni elemento, ogni individuo facevano parte di una infinita rete di connessioni, spesso inconsapevoli, che a mio modesto parere potrebbero assomigliare parecchio a quella “ruota” di cui parla la Maier, in cui “occorre preparare la stanza” per coloro che proseguiranno il ciclo, man mano che ciascuno di noi “sarà andato avanti”.
Non è la sola cosa che le accomuna, a mio modesto parere. Così come Mary Poppins, il personaggio di Travers, rifletteva e incarnava l’ideale (controverso, per certi versi rivoluzionario) pedagogico dell’autrice, così Vivian Maier scelse, come una sorta di “identità segreta” alla Spiderman, per tutta la vita il ruolo di bambinaia, forse anche per indole innata e per una sorta di “affinità elettiva” con i minori piuttosto che con il mondo degli adulti.
Le cose, però, non sono mai semplici come appaiono: così come Pamela Lyndon Travers sembra aver trascorso la propria esistenza seminando indizi e, appunto, “connessioni” sempre contradditorie e fuorvianti, invitando gli interlocutori a non cercare mai la strada più ovvia verso la verità (?), così Vivian Maier, almeno la persona (o il personaggio?) che emerge poco a poco dal bel documentario di John Maloof In cerca di Vivian Maier, è un puzzle apparentemente irrisolvibile: a volte saggia e solare, divertente, amata dai suoi pupilli, e in altre occasioni inquietante, nevrotica, minacciosa e burbera verso gli stessi, ai confini della paranoia e della deriva borderline. Anche in questo, peraltro, assai più simile alla “vera” Mary Poppins della “dolce e zuccherosa” Julie Andrews del film Disney!
Ma chi era, dunque, Vivian Maier?
Io partirei da questa foto. In essa, una delle poche in cui la si vede da piccola, in Francia, nello Champsaur, paese di origine della madre Maria Jaussaud: Vivian era nata in America, nella Grande Mela, ma forse il suo animo si legò molto più profondamente alla campagna francese, di cui imparò l’idioma e con i cui figli giocò fino alle soglie dell’adolescenza, forse praticando già anche l’arte della fotografia, passione trasmessa a lei e alla madre dall’amica Jeanne Bertrand.
E’ una storia di donne, questa. Di donne che possiedono un dono.
Anche la piccola Vivian, forse, ha scoperto qui il proprio.
Si può essere “fotogenici”, ovvero prede designate per l’obiettivo altrui.
Oppure, si può passare dall’altra parte, rinunciando a se stessi per “catturare” il mondo nel proprio sguardo.
Vivian, sempre forse, scelse allora quest’ultima strada.
Lo Champsaur le fece un ultimo regalo: lo strumento per “andare a caccia”, ovvero una macchina fotografica professionale (Rolleiflex), e l’istinto, probabilmente, la indusse a rivolgersi, nella ricerca di un lavoro per mantenersi durante i suoi “safari” nel flusso caotica delle vite altrui, alla cura dei bambini. Compensazione di un’infanzia non proprio serena? Semplice calcolo economico? Chissà. Sta di fatto che di fronte al suo “Occhio” l’infanzia si svela: abbandona le divise, i belletti e le maschere che l’adultità le impone, ed esibisce, senza più pudore o vergogna, il proprio inconsolabile dolore, ma anche la sua indomabile, selvaggia, imperdonabile gioia di esistere.
C’è come un’empatia, un’intesa istintiva e profonda con il mondo segreto e occulto dei bambini, i quali paiono riconoscerla e accoglierla in esso… come una certa tata conoscitrice delle leggi profonde del Creato.
Vivian Maier non appare mai a suo agio sotto l’obiettivo, al cospetto dello sguardo altrui assume le espressioni stereotipate e difensive di chi preferisce nascondersi… la maschera, appunto, di una bambina.
Con i propri “protetti” sembra leggermente più a proprio agio, ma sempre dando l’impressione di sentirsi un pesce fuor d’acqua e che il suo elemento sarebbe dall’altra parte dell’inquadratura…
… e quando finalmente può tornare a “condurre il gioco” ecco che ritrova il proprio “dono”, lo sguardo istintivo che non ha bisogno di guardare nell’obiettivo per “sapere” dove si trova ciò che cerca, per poi puntarlo e… fuoco!
Lo specchio rivela ciò che l’opacità del reale nasconde: la Donna che cammina accanto alla Bambina…
… la Bambina che è sempre la stessa, in ogni angolo di mondo…
… figure che, come le Parche, scandiscono tutte le età della Vita…
… una Donna che è già Mary Poppins (o il suo futuro)…
… ma nel pugno stringe lo scettro della Signora del Tempo.
Tutto ciò rimane impresso nello “sguardo segreto” di una persona di nome Vivian Maier.
C’è un altro elemento che lega Vivian a Mary: l’ombra. La sua sensibilità nel “catturare” la gemella che ci accompagna da sempre, silenziosa e fedele, è quasi un “marchio di fabbrica” della sua arte.
L’ombra di Mary Poppins può agire autonoma, come mossa da vita propria, le ombre descritte da Maier sono a loro volta personaggi a se stanti, che “guardano” i loro proprietari come se vegliassero su di loro, o su remoti, inconfessabili segreti.
Guardando le foto di Vivian, anche io ho sentito una familiarità, un legame con la sua ostentata elusività, con quel suo continuo “non darsi” malgrado la lunga convivenza con famiglie numerose e la frequentazione di ambienti piuttosto affollati. Anche il beffardo epilogo della sua esistenza, in cui sfuggì per l’ultima volta al tentativo della sorte di regalarle la notorietà in vita, pare scritto in una sceneggiatura ben precisa, consapevole, in cui non è prevista una riconciliazione finale con i propri simili.
Vivian Maier soffriva di depressione?
E’ un ipotesi che formulo sulla base della mia esperienza personale, per cui non ha alcuna base concreta. Ma nella progressione del suo chiudersi a doppia mandata nelle proprie istantanee, in quel fotografarsi sempre “di riflesso”, come un fantasma rifratto negli oggetti e nelle superfici, io ho rivisto parte della mia esperienza recente.
Nei dieci anni in cui la Bastarda è stata la mia unica compagna, avrò scattato centinaia e centinaia di fotografie con la mia piccola macchia digitale, e quasi tutte in esterno. Come Vivian, scattavo e poi non le riguardavo più. Le scaricavo sul pc e le lasciavo lì, perché dopo aver passato la giornata vagabondando e fotografando all’impazzata ogni cosa che colpiva il mio sguardo, non provavo più alcun interesse per la cosa, la sua funzione era ormai esaurita.
Riguardandole, una volta fuoriuscito dalla Tana del Coniglio, trovai pochissime immagini di me stesso. Ma più di una volta scoprii di aver immortalato la mia ombra. Come Vivian.
Come se, in talune circostanze della vita, non si potesse sopportare il contatto diretto con la realtà, nemmeno tramite il diaframma di un obiettivo. Soltanto la tua ombra resta a fare a da tramite con la terra, con il mondo concreto.
Il “mistero” di Vivian Maier, dunque, potrebbe essere la storia di una lotta quotidiana contro se stessi e il proprio dolore, avvenuta con il solo ausilio di una macchina fotografica con cui dare voce al proprio “dono”, l’unico vero legame rimasto con il resto dell’umanità dopo che la voragine buia aveva risucchiato la “persona” Vivian lasciandole, forse, soltanto quel suo “occhio” peculiare con cui affrontare la vita?
Chissà? La Donna e la Bambina, insieme, hanno comunque resistito a lungo.
Lasciando, dietro di sé, una bellissima stanza a disposizione di tutti noi, che siamo saliti sulla giostra dopo di lei e che, anche grazie a lei, forse troveremo il coraggio per preparare il posto a coloro che verranno.
Grazie, Vivian, dovunque tu sia giunta adesso.