31 Ottobre 2015 09:00

Con occhi di bambina: l’animazione secondo Cinzia Angelini

Per questo nuovo appuntamento con la rubrica ‘Lanterne Magiche’ abbiamo il piacere (e l’onore) di proporvi una lunga e interessante intervista con Cinzia Angelini, animatrice e storyboard artist italiana ma ormai “losangelina” d’adozione, la quale rappresenta senza dubbio un fulgido esempio di talento e intraprendenza, ma anche del coraggio di oltrepassare quello steccato, geografico e mentale, oltre il quale ci hanno spesso convinti vivano i “paurosi” Efelanti e invece, per coloro che decidono di superarli, possono rivelarsi come la porta per realizzare pienamente i propri sogni. La lunga e poliedrica esperienza professionale e umana di quest’artista ci permetterà anche di fare un viaggio nel cinema di animazione dell’ultimo ventennio, periodo che in breve tempo ha “sconvolto” le gerarchie produttive esistenti (seppur da qualche tempo tiri aria di “restaurazione”) e fatto compiere un balzo epocale alle tecnologie impiegate nel settore… anche se, come ci ricorda la stessa Angelini, ciò che conta, oggi come allora, è avere una bella storia e saperla raccontare.

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Cinzia Angelini

GZ:”La qualità di un buon animatore è non dimenticarsi di essere stato bambino”: provo a partire da questa tua considerazione, per domandare se la tua fascinazione per i ‘disegni animati’ sia stata nutrita, nell’infanzia e nella prima giovinezza, da autori/autrici di riferimento e quanto abbiano contato nella tua formazione, eventualmente anche come allieva (a Milano ci sono state e ci sono figure di riferimento dell’animazione italiana) o anche solo attingendovi quali fonti di ispirazione; inoltre, se frequentando il corso di animazione triennale a Milano hai avuto anche la possibilità di conoscere il contesto italiano del cinema di animazione: lo trovasti incoraggiante, all’epoca? Un confronto con quello attuale, è possibile farlo (seppur da osservatore esterno)?

CA: Rispetto alle attuali generazioni la possibilità che si aveva per noi “ragazzi degli anni ’70” di guardare i cartoni animati era molto più limitata. I film prodotti dalla Disney erano praticamente gli unici lungometraggi che uscivano nelle sale italiane e dopo non esistevano ancora DVD, Blue Rays nè tantomeno internet per poterseli rivedere a piacimento a casa propria. L’uscita di un lungometraggio diventava un avvenimento unico e atteso con trepidazione, e la stessa Disney proponeva un nuovo film solo ogni due/tre anni, lasciando noi, bambini e poi ragazzi, in costante aspettativa. Le immagini che costituivano le mie ispirazioni giornaliere erano soprattutto quelle che catturavo dalla televisione: in quel periodo sul piccolo schermo passavano diverse serie animate giapponesi come Jeeg Robot d’acciaio, Mazinga, Goldrake, etc. Seguivo con molto interesse l’Uomo Tigre e Lupin III. ma le mie preferite erano Heidi e Conan, il ragazzo del futuro, in cui si poteva ammirare il genio di due maestri come Isao Takahata e Hayao Miyazaki. Ricordo molto poco a proposito di animazione italiana, perché purtroppo l’offerta televisiva in proposito era scarsa e comunque non in grado di competere con i prodotti americani e giapponesi. Una delle rare eccezioni che mi vengono in mente è “La linea” di Osvaldo Cavandoli, che è riuscita a lasciare un segno per la sua originalità. Più tardi ho scoperto anche i lungometraggi di Bruno Bozzetto, grande esempio di produttività ad alto livello malgrado le difficoltà economiche: è un vero peccato che in seguito non si siano più verificate le condizioni per realizzarne degli altri. Ritengo che gli anni che ho passato da bambina tra “classici” Disney e serie tv giapponesi mi abbiano reso consapevole dei diversi livelli esistenti nella qualita’ di animazione, approccio alla storia, carachters design e stile cinematografico: una consapevolezza che è sempre stata alla base della mia formazione professionale.

Per approfondire la biografia e l’esperienza lavorativa di Cinzia Angelini rimandiamo a questo speciale della trasmissione tv “Marco Polo”:

GZ: In un’intervista televisiva, hai raccontato che durante le sue prime esperienze di lavoro presso uno studio italiano ti fu in pratica ‘consigliato’ di non ambire al ruolo di animatore in quanto il compito di una donna nell’animazione poteva giusto limitarsi alla coloritura e ad altri ruoli degnissimi ma ‘subalterni’; come se l’animazione in sé fosse un settore prettamente ‘al maschile’ e fortemente ‘gerarchico’: da qui, forse, la spinta decisiva per tentare il ‘salto nel buio’ all’estero, tra l’altro subito a contatto con realtà non certo di secondo piano. Negli USA (e nei vari contesti in cui ha lavorato da allora) le figure di riferimento in campo produttivo e creativo non mancano (per esempio Jill Culton), basti vedere quanti dirigenti di grandi studios sono donne, anche pluripremiate per il loro lavoro; eppure, non si vedono ancora molte registe al timone di grandi produzioni (e in Kung Fu Panda 3 a Jennifer Yuh è stato affiancato un co-regista maschio – l’italiano Alessandro Carloni, altro illustre transfuga dell’animazione nostrana): per la tua esperienza, ritieni che il settore effettivamente tenda ancora ad affidare alle donne ruoli importanti ma ‘occulti’ lasciando la ribalta ‘autoriale’ agli uomini? – ripeto, mi riferisco soprattutto alle grandi produzioni cinematografiche, poiché almeno in quelle seriali autrici come Lauren Faust beneficiano di un vero ‘culto’ tra i fans, mentre nel campo dei corti i nomi pluripremiati e osannati dalla critica di registe come Torill Kove sono ormai più che consueti.

CA: Ho lavorato solo un anno nel mondo dell’animazione italiana, e in particolare nel contesto di Milano. Gia’ dai primi mesi mi fu chiaro, lampante, che se volevo avere una possibilità di imparare, di crescere ed evolvere come artista e professionista non avrei avuto scelta: dovevo andarmene. Ho avuto la fortuna di lavorare la maggior parte dell’anno di lavoro italiano alla Mix Film di Giancarlo Carloni (il padre di Alessandro) e Giovanni Mulazzani, un’esperienza lavorativa e di vita fondamentale anche perché entrambi erano datori di lavoro che pensavano unicamente al meglio dei loro dipendenti. Più volte Giancarlo mi ha ripetuto, come già ad Alessandro: “Devi andartene. Vai all’estero e non guardarti più indietro”.
Così ho fatto.

La Mix Film era comunque una realtà unica nel suo genere, di certo piu’ avanti di tutte le altre, e senza dubbio non fu una faccenda semplice trovare un datore di lavoro all’estero con appena sei mesi d’esperienza effettiva nella professione. Oltre a lavorare alla Mix Film era necessario lavorare anche per altri studi di animazione della città e l’atteggiamento verso una ragazza che voleva diventare animatore era sempre lo stesso. C’era chi ti sorrideva in faccia e chi te lo diceva proprio apertamente: il concetto in sintesi era: – “ma dove vuoi andare? Sei una donna, accontentati dello spazio che ti viene concesso e stai al tuo posto”. Spesso le donne sono costrette, qualsiasi sia il loro campo, ad essere affiancate da colleghi meno competenti di loro ma che fungono da supervisori rispetto a loro e vengono probabilmente pagati molto di più. Alla lunga questa situazione crea un ambiente malsano, che si indebolisce fino ad implodere su se stesso. Io non sono assolutamente una femminista, mi interessa soltanto che ruoli e compensi vengano assegnati in base al merito e alle competenze di una persona, uomo o donna che sia.
La difficoltà di affermarsi come donna nel mondo dell’animazione non è certo un problema unicamente italiano, ma nel nostro Paese viene amplificato anche a causa della forte cultura maschilista che ci caratterizza. All’estero si trovano molte più possibità, ma di certo le professioniste del mondo dell’animazione devono lavorare il doppio per potersi ritagliare uno spazio. Il cosiddetto “soffitto di vetro” esiste, è sempre presente, ma in altri contesti sento che almeno sussiste la speranza di poterlo sfondare, prima o poi, mentre in Italia quel  soffitto pare essere fatto di cemento.
In generale, nelle grandi produzioni è raro trovare al timone una donna regista e come per qualsiasi altra posizione, o forse ancora di più, la fatica di arrivare a tale ruolo di responsabilità è esponenzialmente maggiore rispetto a un collega uomo. Ammiro molto figure come Jill Culton, Brenda Chapman e Lauren Faust, per citarne solo alcune che sono riuscite a sfondare “quel” soffitto, ma conosco bene le difficoltà quotidiane che devono affrontare per preservare la loro posizione.

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GZ: La tua carriera sembra quasi essere coincisa con gli sviluppi delle principali realtà dell’animazione USA dell’ultimo ventennio: hai partecipato all’ultimo film della Amblimation londinese, preso parte al primo film d’animazione della nuova Dreamworks SKG e poi ad alcuni dei successi che hanno reso ‘indipendente’ lo studio: oggi purtroppo quest’ultimo si trova in una fase di pesante ridimensionamento, e la chiusura di alcuni studi e scuole associati non è certo una bella notizia; come hai visto cambiare nel tempo questa importante realtà, dai tempi di Spielberg al presente con Katzenberg?

CA: Questi ultimi vent’anni sono stati sicuramente importanti per l’animazione mondiale e sono molto felice, nel mio piccolo, di averne fatto parte. Siamo passati dai lungometraggi in animazione tradizionale a produzioni realizzate interamente al computer. L’animazione ha anche demolito i propri argini di contenimento e oggigiorno fa parte con i Visual Effects di moltissime produzioni, con budget molto alti ed altrettanto esito commerciale. Anche le serie TV si sono moltiplicate creando un numero di contenuti mai visti prima. Il mondo dell’animazione e dei Visual Effects, in passato spesso snobbato da Hollywood, è ora protagonista e artefice degli incassi annuali di tutte le principali Majors cinematografiche mondiali.
Ma a lauti guadagni, corrispondono grandi rischi: l’animazione è un’insieme di tecniche finalizzate a creare l’illusione dell’immagine in movimento, e risulta estremamente costosa quando fatta ad alti livelli, come quelli di Disney/Pixar, Dreamworks, Warner Bros, Sony Picture Animation, Blue Sky, Laika e Illumination Entertainment. I budgets sono molto molto alti, la speranza è che gli incassi coprano ogni volta le enormi spese, ma talvolta ciò non avviene e,  quando il problema si ripete anche solo per un paio di volte, allora gli studi, come la stessa Disney negli anni Novanta o più recentemente Dreamworks, iniziano a barcollare. Io stessa mi sono trovata in più di un’occasione a vivere tali circostanze dall’interno, e la storia è sempre la stessa: lo staff dirigenziale cresce troppo rispetto a quello artistico con la conseguenza che le scelte artistiche vengono fatte da persone che non sono le più qualificate in tal senso. Ma, qualora le cose vadano male, ad essere penalizzati sono gli artisti , nella fattispecie con pesanti tagli dello stipendo o addirittura licenziamenti di massa. E’ difficile mantenere un equilibrio quando si iniziano ad avere 1.500-2.000 persone che lavorano su più produzioni in contemporanea, ma personalmente penso che la cosa principale sia la scelta di professionisti qualificati da mettere a capo di una produzione e, una volta fatta la scelta del film da produrre, lasciarli lavorare in autonomia e serenità.
Quando ero ad Amblimation, e durante i primi tempi alla Dreamworks, avevo la netta sensazione che si lavorasse su un film con l’intento di creare delle cose belle, originali, che spingessero l’animazione verso nuove frontiere anche se pur sempre in un ambito commerciale. Oggigiorno molti studios si ritrovano spesso a imitare o addirittura a copiare dalla concorrenza, nell’affannosa ricerca di un presunto “successo in scatola”. I costi di produzione sono talmente alti che chi prende le decisioni si ritrova come “congelato” in una sorta di stress da fallimento che spinge gli Studios ad essere meno creativi e poco innovativi, con la conseguenza che i prodotti che vengono successivamente distribuiti risultano spesso mediocri, banali e ripetitivi.

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GZ: Hai lavorato anche al primo film animato di Sony Pictures , Open Season (Boog & Elliot a caccia di amici, 2002) e al 47. classico Disney, Meet the Robinsons (I Robinson- una famiglia spaziale, 2007) – personalmente, quello che ho amato di più del ‘nuovo corso’ Lasseter: secondo te, in cosa è migliorata la Disney dopo la ‘fusione’ con Pixar e in cosa è, eventualmente, ‘peggiorata’?

CA: Pixar è lo studio che negli ultimi venti anni è riuscito per più tempo a mantenersi originale e creativo ma, dopo l’acquisizione da parte dalla Disney, la sfida è stata quella di mantenere tale creatività e al tempo stesso trasmetterla alla Disney, la quale nel 2006 non era certo all’apogeo del suo splendore. Pixar è rimasta Pixar ma, come tutti credo abbiano notato, anche loro hanno iniziato a buttarsi sul più sicuro e redditizio mercato dei sequels. Per questo tipo di studios penso sia inevitabile doversi arrendere a queste logiche poiché oggigiorno la competizione è spietata anche per i leaders del settore. L’importante è continuare a sviluppare anche storie originali per continuare a stimolare con nuovi personaggi e storie sia gli artisti che lavorano a questi film che lo stesso pubblico.
Penso che Pixar abbia avuto un gran successo nel trasformare la Disney dal 2006 ad oggi. I prodotti Disney sono migliorati moltissimo in questi anni sia dal punto di vista dell’animazione che della storia. Una cosa su cui dissento è la scelta di non mantenere almeno una base di produzione per l’animazione tradizionale. Dopo aver fatto Princess and the Frog lo studio ha mollato una tradizione storica. Disney, lo studio che ha portato l’animazione al grande pubblico, non produce piu’ animazione con carta e matita. L’animazione tradizionale è un processo molto particolare che richiede professionisti molto specializzati, disegnatori di altissimo livello che sono stati semplicemente dimenticati. Una delle “scuse” più frequenti è che I film di animazione tradizionale non vendono come quelli al computer: lo ritengo solo un pretesto, secondo me ciò che realmente determina il successo o meno di un film è sempre la storia, che non può essere sottomessa in partenza alla tecnica che si sceglie di usare, carta o matita, mouse, plastilina o pixels che siano. Una storia è una storia. Funziona o non funziona.

L’importante, come ho già detto prima, è mantenere vivo un equilibrio con il proprio pubblico. A mio parere, tante volte l’audience viene sottostimata e sottovalutata: si ritiene che essa possa comprendere e apprezzare solo le cose che già conosce, le storie con cui si sente a proprio agio. Io penso invece che il pubblico contemporaneo sia molto più maturo e competente sotto tutti i punti di vista, e dunque pronto per vedere film d’animazione che esplorino stili, trame e tematiche diversi dalle consuete storielle per bambini piccoli. La sfida odierna è trovare studios ed executives abbastanza coraggiosi da intraprendere tale strada ed esplorarne le infinite possibilità.

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GZ: cosa ne pensi delle recenti polemiche sulla vittoria sistematica dei film Disney ai premi Oscar negli ultimi anni? Esiste in effetti una sorta di monopolio o, come sostiene ad esempio il sito Cartoon Brew, il problema è che buona parte dei giurati dell’Academy preposti a giudicare l’animazione non hanno né la competenza né gli stimoli per farlo adeguatamente e tendono a premiare ciò che gli risulta più familiare?

CA: Purtroppo si tratta di un problema reale, in modo particolare per il settore dell’animazione. Sicuramente i grandi studios hanno molto peso “politico” e risorse per “influenzare” l’esito di vari premi cinematografici prestigiosi. Non penso sia una competizione equilibrata quando si vedono splendidi film indipendenti che riescono ad ottenere appena una nomination, come fosse una sorta di “premio di consolazione” per chi si sa benissimo non avere alcuna chanche di vittoria finale dato che le altre opere in gara appartengono a majors cinematografiche con risorse decisamente superiore per “spingere” i propri prodotti. Concordo dunque con la tesi di Cartoon Brew, ed è triste constatare una realtà come questa: le persone che votano spesso non hanno che una vaga idea di cosa sia l’animazione, votano influenzati dai propri, in genere limitati, gusti personali in materia, dalle simpatie per gli studios con cui hanno familiarità, o addirittura basandosi su quale film sia piaciuto di più ai figli o nipoti. Sarebbe auspicabile che istituzioni prestigiose come l’Academy of Motion Pictures and Arts vigilassero maggiormente per garantire che (almeno) la maggior parte dei giudizi vengano assegnati da autentici professionisti del settore, ferrati sull’argomento e, naturalmente, non condizionati da rapporti troppo “amichevoli” con le majors. Questo principio dovrebbe valere anche per la categoria dei cortometraggi, che troppo spesso vede ancora prevalere opere prodotte dai grandi studios a discapito di altre produzioni indipendenti che si vedono negare le possibilità di vittoria non certo a causa di minore qualità ma non potendo contare su altrettanto potere autopromozionale.

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GZ: A proposito di Walt Disney, nel cinema di animazione è ancora valido il suo motto: “keep moving forward” (andare sempre avanti)? Quella sorta di ‘innocenza creativa’ con cui sono nate tante meraviglie ha ancora posto in un mercato che muove cifre enormi, o è quest’ultimo a condizionare le scelte?

CA: Penso che la freschezza, e in un certo senso l’ingenuità (in senso buono), con cui un tempo si affrontava la produzione di un lungometraggio animato sia molto difficile da mantenere al giorno d’oggi. La pressione del box-office è enorme sia per i films live action che nel caso dei cartoons. In particolare, il problema dell’animazione di lungometraggi sono i costi elevatissimi che comportano la necessità di ottenere il successo di botteghino a tutti costi.
Negli ultimi anni Chris Meledandri con la sua  Illumination Entertainment è riuscito a impostare un nuovo approccio alla produzione di un lungometraggio grazie all’enorme successo di films come Lorax, Despicable Me (Cattivissimo Me) e lo spin-off de I Minions, a cui ho anche partecipato come story artist. Il suo metodo è quello di spendere meno della metà del budget a disposizione, senza andare a discapito della qualità, mantenendo così un margine di guadagno in genere superiore rispetto ad altri Studios che si stanno giocando la sopravvivenza dopo aver investito 100-120 milioni di dollari, o più, in una singola produzione.

Penso che l’impostazione seguita da Illumination Entertainment sia l’unica possibilità di sopravvivere per un grande Studio in un mondo di business competitivo: è matematicamente impossibile riuscire sempre a soddisfare i vertici degli studios, gli investitori, stock holders, etc., specie in un mercato sempre più saturo e competitivo.
Forse soltanto la Disney/Pixar avrebbe comunque la possibilità, viste le risorse apparentemente illimitate di cui dispongono, di mantenere entrambi gli studios anche se facessero dei clamorosi fallimenti. O, quantomeno, impiegherebbero un po’ più di tempo prima di “chiudere bottega”!
Dunque, per tornare alla domanda iniziale, la risposta è sì: il mercato attuale condiziona più che mai le scelte degli Studios. Il segreto, ribadisco, sta nel trovare una formula per poter mantenere sia il successo al botteghino che uno spazio dedicato alla creatività, garantendo la fiducia ai propri artisti e, di conseguenza, la freschezza delle storie. Una sfida giornaliera per tutti i grandi studios, a prescindere che lavorino nell’animazione o nel cinema tradizionale.

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GZ: Come è stato invece sperimentare il set di una delle prime davvero riuscite versioni cinematografiche degli eroi Marvel, ovvero Spider Man 2? Il progetto cinematografico Marvel è un universo che vorresti frequentare ancora?

CA: Devo ammettere che sono capitata quasi per caso alla produzione di Spiderman 2: ero passata dalla Dreamworks alla Sony Imageworks per partecipare a Boog & Elliot, ma visto che il film non era pronto mi sono ritrovata a lavorare per più di un anno al mio primo, e finora unico, film basato su Visual Effects. L’esperienza e’ stata estremamente positiva.
Sono sempre stata veloce nell’adattarmi a nuovi stili di animazione, ma in questo caso il salto è stato ancora maggiore visto che passavo da un’animazione di tipo “cartoonistico” ad animare Doctor Octopus e Spiderman, con uno stile grafico il più possibile fedele alla realtà. Mi piacerebbe molto nel futuro lavorare nuovamente per film live action, ma questa volta in veste di story artist, anche perché ormai da qualche anno mi sto dedicando esclusivamente a questo ruolo.

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GZ: La specializzazione dello ‘story artist’ sta conquistando parecchi professionisti provenienti dall’animazione pura: per quale motivo, secondo te? Puoi provare a spiegarci meglio in cosa consiste il fascino di questa nuova forma d’arte, prima lasciata un po’ in ombra e ora gratificata anche da mostre dedicate e con figure professionali formate ad hoc?

CA: La figura dello story artist c’è sempre stata. Tutti i film di animazione, da Biancaneve a Pinocchio, La Bella e la Bestia, Il Re Leone, Toy Story, Alla ricerca di Nemo, Il Principe D’Egitto, Spirit, L’Era Glaciale, The Secret of Kells, Book of Life, Cattivissimo Me, Minions o qualsiasi altro film animato viene interamente “storyboarded”.

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[esempio di story test per “Kung fu Panda“:

In sintesi, viene fatto uno storyboard di tutta la durata del film. Una volta approvata la sceneggiatura, gli story artists interpretano il testo, con una successione di disegni sintetici e “schizzati”: un’interpretazione visiva che servirà a regista e produttori per visualizzare in modo veloce, e relativamente economico come potrebbe svilupparsi una sequenza e, una volta montate insieme tutte le scene, il film stesso. Una volta partita la vera e propria macchina produttiva, i costi subiscono una brusca impennata. Lo story board fa parte del processo di pre-produzione che deve portare la storia alla sua massima potenzialità con il minor costo possible, e la stesura dello “story” per un lungometraggio può durare da uno a tre anni, a seconda dello stato in cui si trova la sceneggiatura: molto spesso, infatti, viene chiesto agli story artists di riscrivere per immagini determinate sequenze, o parti di sequenza, un processo molto dispendioso rispetto a riscrivere la pagina stessa. Molti executives credono che la storia per l’animazione debba nascere più con lo storyboard che tramite uno script ben strutturato, come invece è la norma nel mondo del live action. Penso che questo approccio costituisca uno dei veri problemi del settore, e sia la causa di notevoli sprechi finanziari all’interno di molte produzioni animate . Nel mondo dell’animazione raramente si parte con sceneggiature davvero solide, e passa purtroppo molto tempo prima che i registi e gli studios capiscano esattamente cosa vogliono per il film. Con una situazione di questo tipo spesso tocca agli story artists, coordinati dal regista e dalla produzione, definire la trama che si intende raccontare.

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Penso che la grande attenzione che negli ultimi anni viene data alla figura dello story artist sia dovuta al fatto che, rispetto al passato, oggi si creano degli animatics, anche conosciuti come story reels, assai sofisticati, che con l’uso di tantissimi disegni accompagnati da dialogo ed effetti sonori, seppur sempre in modalità “rozza”, riescono ad esprimere molto bene lo sviluppo di una sequenza e dell’intero film. Questo processo è molto amato dagli Studios che in tal modo riescono ad aggiungere in pre-produzione sempre più informazioni, raggiungendo un livello di chiarezza tale da permettere loro di operare scelte definite in fase di produzione e poter così anticipare con una certa precisione i costi effettivi.

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Personalmente sono sempre stata attratta dal Dipartimento di Story perché penso sia uno dei livelli più creativi del processo. La responsabilità è notevole in quanto gli story artists creano in pratica la traccia che poi tutti gli altri dipartimenti seguiranno. Il dipartimento di story è anche molto più piccolo rispetto ad altri, come per esempio quello di animazione, e questo fornisce la possibilità ad ogni singolo artista di interagire direttamente con il/la regista e i produttori e dunque di sentirsi, in un certo senso, più “responsabile” della creazione effettiva del film.
Ogni story artist poi ha un proprio stile e, considerando che lo story reel viene creato per essere utilizzato e poi gettato via, tale individualità artistica è bene accetta rispetto alle esigenze di un dipartimento di animazione tradizionale in cui l’animatore deve attenersi esattamente al lavoro dei colleghi per rappresentare il personaggio sempre allo stesso modo, evitando di andare “fuori modello”.
Questa è una delle ragioni per cui penso che la posizione di story artist attragga sempre più svariate tipologie di artisti, i quali possono abbinare il proprio stile personale ad un preciso linguaggio cinematografico riuscendo, il più delle volte, ad esprimere il proprio talento sia attraverso lo sviluppo della trama sia tramite i singoli disegni, in un’ottica assai più creativa rispetto ad altre tipologie professionali che dipendono strettamente dai dipartimenti che stanno prima e dopo di loro.

GZ: Le serie tv, gli speciali televisivi, le attrazioni dei parchi tematici: come si è evoluto nel tempo il mestiere di animatore e story artist? In un’ottica crossmediale, quanto è stimolante poter incrociare tanti personaggi e forme espressive? Riguardo alle serie tv, quali apprezzi maggiormente e quali consideri pregi e difetti nel lavorare sulla serialità invece che su un progetto unico?

CA: Il successo dell’animazione di questi ultimi anni ha suscitato uno sviluppo crossmediale senza precedenti. Quello che diversifica un’artista di successo è ora anche (se non soprattutto) l’adattabilità al maggior numero di canali multimediali. Questo universo espressivo è in costante evoluzione, e per un animatore, story artist o qualsiasi altro artista coinvolto nell’ animazione è essenziale, come io stessa ho fatto passando dall’animazione allo storyboard, sapersi all’occorrenza reinventare.
Devo ammettere che seguo molto di più le serie TV live action rispetto a quelle animate: il salto di qualità che è stato fatto in questi ultimi anni dal punto di vista della qualità produttiva, della trama, dello storytelling, regia, direzione della fotografia e sviluppo dei personaggi è incredibile. Personalmente, lavorando a lungometraggi di animazione mi sento molto più vicina al live action che non alle serie TV animate. Budget, ritmo lavorativo e scadenze relativi a una produzione seriale animata sono profondamente  diversi da quelli relativi a un lungometraggio in animazione ed entrambi questi mondi presentano vantaggi e svantaggi. Ad esempio, le produzioni di films animati hanno dei tempi molto lunghi che, se ben gestiti, lasciano tempo per sviluppare con calma e precisione il linguaggio visivo di un film, la storia, i personaggi e tutto il resto; purtroppo, in molte occasioni, proprio a causa dei tempi più allungati, si cade nell’ incubo del “fare e rifare”, con il rischio di rovinare l’originalità e la freschezza dell’idea iniziale. D’altro canto, le serie TV seguono ritmi frenetici che spesso penalizzano il livello artistico del progetto. E anche vero che in più di un’occasione proprio l’avere poco tempo a disposizione ha tirato fuori il meglio dalle squadre di professionisti in campo. Talvolta ho invidiato i colleghi che lavorano nel settore live action o sulle serie TV, ma la magia del lungometraggio animato, o del corto, tuttora riesce ad avvincermi e a darmi le energie per continuare a lavorare tanto, tantissimo, oltre che per sopravvivere nel competitivo mondo professionale odierno.

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GZ: Vivere a Hollywood, lavorare presso grandi studi di animazione, collaborare o anche solo confrontarsi con grandi talenti: il rovescio della medaglia può essere forse la mancanza di una tradizione artistica di lungo periodo, come in Europa e in Italia. Eppure, proprio da noi pare scomparire sempre più la ‘cultura’ vera, ovvero la consuetudine alla fruizione delle arti, in tutti i campi e mestieri come quello del disegnatore o dell’animatore vengono purtroppo considerati marginali se non ‘superflui’; ciò anche per la mancanza di un mercato solido e di un contratto professionale che li legittimi. Veri maestri come Bruno Bozzetto, oltre a faticare nel reperire risorse, vengono ricordati entro piccole cerchie oppure in occasione di riconoscimenti decretati da altre nazioni in cui sono peraltro considerati dei giganti… affinché gli autori di animazione (e non solo) smettano di ‘fare la fame’ (economica ed esistenziale) non ritieni che in Italia servirebbe anzitutto un’educazione ‘visiva’ del pubblico che interessi ogni ambito sociale e istituzionale? Non certo coercitiva ma almeno programmatica, che almeno proponga vere alternative agli obiettivamente limitati programmi attuali. Che ne pensi, fra l’altro, dei temi-base proposti dall’animazione italiana? (Si sta preparando l’ennesima serie su argomento ‘catechistico’, una ‘vita di San Francesco’ diretta da Maurizio Nichetti, e penso che qualcosa di più si potrebbe pure pretendere, o sbaglio?)  Fenomeni come Kung Fu Panda, i Minions, e Dragon Trainer potrebbero nascere anche in Italia o sono frutto di un lavoro di équipe non pensabile attualmente per la dimensione produttiva nostrana? Un franchise globale come le Winx può essere paragonabile ad essi, o trattasi di operazione anzitutto commerciale? Come vengono assorbiti i prodotti italiani dalla audience americana?

CA: Quanto mi piacerebbe avere una formula magica per svegliare l’Italia! Non solo l’Italia dell’animazione, ma in generale l’intero Paese: cambiarne la mentalità, stimolare le nuove generazioni a volere di più e al contempo a dare di più. Di recente mi sono recata a Roma, invitata a partecipare al Romics –  che tra l’altro è una bellissima vetrina per il mondo dell’animazione, fumetto e gaming –  e ho avuto l’occasione di vivere la situazione dell’animazione italiana più da vicino, dato che vivo e lavoro a Los Angeles dal 1997. Ho parlato con studenti, professionisti e dirigenti di studios italiani, sia di animazione che di live action, e lo spaccato risultante è stato a dir poco deprimente. Il problema, a parer mio, nasce da un malfunzionamento della nostra società: basti guardare lo stato di degrado in cui una citta’ come Roma viene lasciata (e non era ancora scoppiato lo scandalo di “Mafia Capitale”!, n.d.G). Roma! E’ così ci rappresenta nel mondo? Come possono i politici italiani permettere che le nostre città, la nostra capitale! – siano ridotte in quello stato? Quale rispetto possono pretendere all’estero, se loro stessi non ne dimostrano alcuno verso i propri cittadini, i propri figli o, almeno, verso se stessi? A me piangeva il cuore vedere Roma così sporca, dissestata, in balìa del caos… così abbandonata, insomma. [Spero nessuno si offenda, dato che la realtà è sotto gli occhi di tutti. A quanto pare. N.d.G.].

[Qui sotto il video della lezione magistrale che Cinzia Angelini ha tenuto per gli studenti della Roma Film Academy presso il Teatro 16 di Cinecittà. ]

L’animazione dei lungometraggi è un processo che richiede un grande lavoro in team, e quando parlo di team parlo di 400-500 persone, che coordinate fra loro portano avanti un progetto unico per 4 o 5 anni, nello sforzo di ottenere un risultato finale di qualità altissima da condividere poi con il mondo. Come si può pretendere che un Paese che non è capace di tutelare e valorizzare le proprie meraviglie sia in grado di intraprendere con successo un progetto paragonabile a quelli di realtà quali Pixar, Dreamworks o Illumination? Mi duole doverlo dire, ma al momento non ho elementi per ritenere che sia possibile. Almeno fino a quando la mentalità nostrana non muterà drasticamente. Un esempio al di fuori dell’animazione sono gli aereoporti di Fiumicino e quello londinese di Heathrow: che immagine si potrà fare un turista che non ha mai visitato prima l’Italia o l’Inghilterra passando da questi due scali? La differenza risulta enorme, e lo stesso discorso vale per l’animazione. Non esiste da noi la mentalità di chi vuole vendersi e spendersi ai massimi livelli. Gli italiani che vorrebbero cambiare le cose, e che combattono per migliorare il Paese e salvare la propria professione, qualsiasi essa sia, si trovano prima o poi schiacciati da un sistema che mira all’immobilismo, e alla fine, invece di vivere pienamente, si trovano a scegliere fra una mera sopravvivenza e la necessità di partire.
Tutti quelli che, come me, hanno deciso di andarsene lo hanno fatto perché non hanno accettato di scendere a compromessi senza prospettive. Sono persone che esigono rispetto per il proprio lavoro, pronte a lavorare giorno e notte per migliorarsi e raggiungere i livelli più alti della loro professione ma con la consapevolezza che questi sacrifici porteranno a dei risultati positivi, al riconoscimento dei propri meriti e a un’effettiva crescita personale. Se si tolgono ai giovani queste doverose prospettive… che cosa gli resta? Quale entusiasmo dovrebbero coltivare? [Già… quale?, n.d.G.]

Tornando alla domanda, di certo esistono delle realtà valide anche in Italia, ma se vogliamo parlare di animazione competitiva ai massimi livelli la risposta purtroppo è no. L’Italia non è in grado, al momento, di competere con le Majors americane, Francesi o Inglesi. Così come Fiumicino non può competere con Heathrow, Francoforte e tanti altri aeroporti che si trovano in Paesi con molte meno possibilità, storia e cultura di noi. L’Italia deve iniziare il cambiamento guardandosi dentro, apprezzare finalmente quello che ha, quello che è stato fatto dai nostri avi, imparando il rispetto vero e reciproco: forse allora riuscirà a rialzare la testa e a tornare competitiva. Lasciando spazio ai propri giovani, avendo fiducia nella loro capacità di apprendere e migliorare, incoraggiando e aiutando concretamente chi se lo merita. Se le persone con vero talento non vengono riconosciute, appoggiate e tutelate di certo la situazione non migliorerà. E in Italia gli artisti di talento non mancando davvero! Manca la fiducia nei loro confronti, purtroppo.

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I film Italiani non sono popolari in America. Spesso non arrivano sul mercato semplicemente perché il livello di qualità risulta inferiore allo standard mondiale. I temi privilegiati, che raramente abbracciano temi globali, non ne favoriscono la diffusione.
Per essere davvero competitivi occorre scegliere temi universali, che parlino a più persone possibili. Un film può pure essere ambientato in Italia, ma il messaggio, la storia, lo stile narrativo devono essere diretti verso un pubblico trasversale.
Non si può fare un film d’animazione in lingua italiana, con una storia peculiarmente locale e per giunta di qualità mediocre, e pretendere che venga distribuito negli USA o altri mercati forti: non accadrà mai. L’unica alternativa sarebbe la decisione di un forte broadcaster televisivo, o di un importante ente cinematografico italiano, di investire molto, ma davvero molto, nel creare uno studio di animazione che raccolga dei professionisti dell’animazione straniera insieme ad artisti italiani che abbiano fatto molta esperienza all’estero e affiancare loro le giovani leve italiane in modo da tramandare la qualità di lavoro che viene richiesta oltrefrontiera, insieme ad un atteggiamento e una cultura lavorativa diametralmente diversa da quella che vige in generale nei nostri studi d’animazione.

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GZ: Ora ti stai cimentando con la realizzazione di un corto, MILA, che sembra costituire quella sorta di ‘ritorno a casa’, di Sacro Graal o, a volte!, la Moby Dick che ogni artista si trova a voler raggiungere a un certo punto della sua carriera: lo ritieni un apice, un punto d’arrivo o soltanto l’inizio di una nuova fase magari all’insegna della regia? Quali le difficoltà principali nel coordinare un progetto così personale e autoprodotto, e su quali canali intenderesti proporlo?

CA: Mila rappresenta per me un progetto molto importante, sia dal punto di vista professionale che umano. Pur essendo una produzione basata sul volontariato, la qualità del film è di altissimo livello: il corto è co-prodotto da Ibiscus-Media in collaborazione con la Trentino Film Commission, La Fondazione Cassa Rurale di Trento, Pixel Cartoon, Baraboom Studios, Solid Angle, Egnyte, Timbuktu, OneDigitalFarm, ThinkBox, Arpaint Cretive Studio, Squashnstretch.net, la prima scuola di animazione online tutta italiana, Stay Nerd e Stay Nerd Production.

Mila è una produzione internazionale che coinvolge più di 250 artisti da 25 paesi diversi che lavorano sotto il tetto virtuale di uno studio creato nella “rete”. La nostra intenzione con Mila è di diffondere un messaggio assai caro a me e ai miei 250 collaboratori: il tema della Guerra visto dal punto di vista dei bambini, nel nostro caso la piccola Mila che dà il suo nome al film. Mila rappresenta tutti i bambini, qualsiasi sia l’epoca in cui hanno vissuto i conflitti, il luogo, le motivazioni, l’esito finale. La speranza è di far capire il messaggio ai nostri futuri giovani spettatori che magari, quando si troveranno a dover prendere posizione pro o contro una guerra, si ricorderanno di una sequenza di Mila, di una sua espressione, di un fotogramma che li spingerà a decidere a sfavore di un conflitto. Ecco, considererei questa la vera vittoria per il team di Mila, un risultato grazie al quale tutta la fatica fatta negli ultimi 5 anni, e quella che ancora dovremo impiegare nell’ultimo anno di produzione, non sarà stata vana.

[Parla la “vera” Mila, ovvero colei che ha ispirato la storia narrata nel film: Giovanna Eghenter, mamma di Cinzia.]

Considero Mila senza dubbio un punto di partenza, spero l’inizio di una nuova fase nel mondo della regia. Non credo molto nell’apice di una carriera, c’è sempre la possibilità di imparare, di inventare un nuovo modo di proporsi e di interpretare il mondo. Sono sicura che questo progetto porterà a me e a tutto il team molte soddisfazioni e interessanti sviluppi futuri. L’intenzione è quella di partecipare a tutti i festival nazionali ed internazionali per promuovere il film e il suo messaggio.

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GZ: Che ne pensi riguardo al cosiddetto ‘nuovo femminismo’ dei personaggi animati, da Elsa a Malefica? Si tratta davvero di una svolta, o sotto sotto non ci si discosta molto dal modello femminile ‘classico’? E come giudichi quest’ondata di remakes e reboots? E’ così ‘pericoloso’ oggi per Hollywood produrre storie originali, magari con protagoniste femminili simili a quelle di serie animate come ‘Adventure Time’ e affini, per fare un esempio; o sono ambiti con pubblici di riferimento troppo diversi? In tal senso la ‘Medusa’ di Lauren Faust, se realizzata, potrebbe costituire un anello di congiunzione fra linguaggio cinematografico e televisivo?

CA: Non considero Malefica (protagonista di Maleficent) nè tanto meno Elsa (Frozen) personaggi rappresentativi di un nuovo femminismo, anzi. L’uso dei personaggi è in superficie “femminista”, ma approfondendo l’analisi si cade nella solita vecchia storia di una donna alla ricerca dell’amore, dell’appagamento sociale, del matrimonio, in sintesi del bisogno di vivere trovando un ruolo socialmente accettabile in modo da poter esistere e sentirsi realizzata. Ho visto Frozen con la mia bimba, che all’epoca aveva 8 anni, e mi ha veramente infastidito il modo in cui la donna viene rappresentata. I simboli femminili che vengono offerti alle nuove generazioni sono nella maggior parte dei casi versioni differenti della medesima “donna oggetto”.  Anche per questo sono molto più attratta da personaggi femminili forti ed indipendenti come quelli di certi film di Miyazaki o della bellissima serie live action Game of Thrones (Trono di spade) in cui l’inaspettato è la regola principale e dove le donne ricoprono ruoli e funzioni decisamente fuori dalla norma. Devo dire che i bambini si dimostrano assai recettivi e interessati a questo tipo di personaggi rispetto ai soliti clichés noiosi e ripetitivi. Certo che se non gli proponiamo alternative, giocoforza diranno che confermerano di preferire questi ultimi! I bimbi sono e diventano quello che vedono, ma sarebbero pronti ad immedesimarsi in personaggi molto più interessanti. Invece Hollywood punta sul sicuro, i grandi studios spesso legano la propria sopravvivenza a un singolo prodotto e risulta dunque lampante come il successo preconfezionato faccia gola un po’ a tutti. Il grande pubblico accetta, per ora, di vedere e rivedere sempre le stesse cose,  ma non durerà: anche la mecca attuale del genere supereroico non durerà a per sempre. E’ fondamentale rinnovare il mercato per mantenerlo stimolante e vivo: come in Natura, se si continuano a tagliare alberi senza piantarne di nuovi, ben presto ci troveremo davanti a una vera e propria desertificazione creativa. Si tratta di trovare un equilibrio che possa mantenere il mercato in salute senza esagerare in un senso o nell’altro, e allo stesso tempo introdurre sempre nuove formule per traghettare il pubblico verso nuovi lidi.
Se si mangia troppo una pietanza ci si stufa, quindi la si abbandona per cercarne della altre; analogamente, la mente umana è affamata di informazioni, di novità e di stimoli, e se non li trova si stufa molto velocemente. Se ne accorgerà presto anche Hollywood…

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GZ: La tendenza predominante in una larga fascia dei dirigenti e dei produttori italiani sembra andare verso la linea del “precedenza ai progetti pensati in funzione del marketing”, e anche i vari programmi di finanziamento europei parrebbero privilegiare chi, come di dice, ha già provveduto a “coprirsi le spalle” con un’abile attività di promoting e selling con i vari broadcaster: ascoltando i rigorosi panels dei rappresentanti di studios esteri la sensazione è che in Italia converrebbe seguire tutti la “linea Straffi“, il già citato creatore del fenomeno Winx che mi risulta assai ben avviato anche in USA: eppure, i grandi film americani (o giapponesi) che escono nelle sale non sono soltanto questo, hanno pretese e risorse autoriali che invece in Italia scarseggiano alquanto.
Mia personale, e in quanto tale discutibilissima, opinione è che prodotti come questi raramente si evolvano qualitativamente in modo significativo, restando anzitutto una più o meno elevata fonte di reddito che, è vero, potrebbe essere utile per finanziare progetti migliori ma più spesso vengono reinvestiti in operazioni analoghe, impedendo forse ai professionisti stessi coinvolti di operare degli effettivi salti di qualità.) Domanda (in base alla tua esperienza e opinione): questa tendenza, se ritieni che esista effettivamente,  costituisce una visione “provincialistica” tipicamente italiana (dove è appurato che vige un forzato monopolio produttivo dell’emittente nazionale, anche a causa della latitanza delle altri emittenti) oppure i cosiddetti “espertoni” del mercato stanno davvero indirizzando il mondo dell’animazione (almeno, quello “non indipendente”) verso un’ottica di vassallaggio della creatività rispetto alle proiezioni di guadagno? E se sì, è un fenomeno reversibile?

CA: Tutti sono alla ricerca di una formula vincente. La verità è che non esiste. Nessuno sa veramente perché un personaggio piaccia più di un altro a parità di condizioni, né il motivo per cui una storia, che sulla carta non appare così innovativa, faccia invece impazzire il pubblico. Certamente il fattore marketing è importante, ma in questi ultimi anni ho constatato sempre un evidente squilibrio che ha portato il lato commerciale a dettar legge in modo eccessivo: i grandi studios, per sopravvivere a fronte degli enormi costi, necessitano di assicurarsi che i film diventino successi “a scatola chiusa”. A volte ci riescono, ma non di rado vengono prese delle cantonate clamorose e i fallimenti negli ultimi anni non sono mancati, marketing o non marketing, anche fra operazioni apparentemente sicure come i sequels/prequels/reboots. Anche nel caso di produzioni mainstream e commerciali, come in tutti i campi, ci vuole una certa misura, e la parte business dovrebbe rispettare l’ambito di quella creativa, e viceversa. Nella maggior parte dei casi, invece, si verificano situazioni di squilibrio da una parte o dall’altra. La cosa fondamentale, come ho già detto, è che vi sia un’idea di base originale, fresca, latrice di un messaggio globale, e che la storia e i personaggi funzionino. Molto spesso si vedono film di discreta qualità tecnica penalizzati da trame sviluppate in modo sciatto e superficiale e da protagonisti privi di spessore e caratterizzazione. Un film non si salva soltanto con immagini spettacolari: se l’insieme non è all’altezza, niente salverà il prodotto. Personalmente, preferisco di gran lunga vedere un film che ha goduto visibilmente di scarse possibilità produttive, quindi con una resa visiva mediocre ma compensata da una storia eccezionale che riscatta tutto il resto, piuttosto che il contrario. Se il pubblico si ritrova rapito dai personaggi e dalle loro vicissitudini, molto verrà perdonato alle carenze tecniche, ma nel caso opposto il pubblico non perdonerebbe destinando l’opera al fallimento. La storia innanzitutto!

Tutto è reversibile, basta capire in cosa si sbaglia e quindi avere il coraggio di cambiare. [Mica poco!, n.d.G]

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GZ: La società umana pare spesso voler imbrigliare sul nascere l’immaginazione delle suoi membri, eppure senza un rigoroso addestramento non sarebbe possibile ‘dare forma concreta’ ai sogni dell’infanzia: in uno special tv era molto bella l’immagine di te che insegnavi il disegno a tua figlia così come tua madre aveva probabilmente fatto a  sua volta con te, trasmettendovi a vicenda la gioia e il conforto di tale tecnica come un dono che accompagna nella vita a prescindere dalle scelte che si faranno. La stessa MILA, sotto i bombardamenti, trova riparo dall’orrore del mondo ricreando la serenità della propria famiglia con le matite colorate su un foglio bianco. Lastrego & Testa, storica coppia della narrativa italiana per l’infanzia, hanno sempre portato avanti, con linguaggio crossmediale, una coerente idea di mondo e di pedagogia: anche tu ritieni di aver avuto questa sorta di ‘bussola etica’ a guidarti nella tua personale esperienza?

Penso che sia fondamentale tramandare le proprie conoscenze, passioni e competenze alle nuove generazioni. E’ nostro dovere farlo per arricchire i bambini fin dalla prima infanzia e riempirli di strumenti positivi che li aiutino ad affrontare la vita nel modo migliore. Allo stesso modo è utile a noi stessi continuare a farci incantare dalla loro innocenza e spontanea genialità per mantenere vivo il bimbo che è in tutti noi. Il disegno, a tal proposito, è un elemento fondamentale per riuscirci e per facilitare la comunicazione infantile, ma viene spesso sacrificato per spingere i giovani in direzioni che, nella prospettiva degli adulti, godono di maggiore “credibilità”. Come ho ripetuto più volte, tutti nasciamo con la capacità di disegnare, creare, cantare e comunicare, ma pian piano l’impostazione dominante nella nostra società allontana, nella maggioranza dei casi, i giovani da queste forme d’arte. Quello che cerco di fare con i miei figli è di dare il più possibile importanza al disegno, alla musica, all’espressione artistica in generale, per mantenere quell’approccio innocente che sta alla base della creatività. Sicuramente l’aspetto di denuncia e di insegnamento presente nel mio cortometraggio Mila  rappresenta le mie convinzioni, ed è dunque in sintonia con la mia personale ‘bussola etica’. E’ stato naturale fin dai primi passi nel mondo dell’animazione pensare di voler “usare” il medium che tanto amo per perseguire tale mio scopo; decidere di intraprendere una strada di questo tipo non è stato facile, ma è un premio inestimabile riuscire a portare avanti ciò in cui si crede riuscendo a preservare i valori positivi che ci hanno formato.

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GZ: Che opinione hai delle nuove associazioni che stanno nascendo sotto l’egida e l’esempio di Women in Animation? Pensi che siano di reale aiuto per far crescere il ruolo femminile nel settore?

Associazioni come Women in Animation sono importantissime e fondamentali per sensibilizzare gli addetti ai lavori sul fatto che troppe poche donne ricoprono ruoli importanti nel mondo del cinema. Non è solo il fatto di dare più’ spazio alle donne che è importante, ma aprirsi a storie nuove generate da sensibilità diverse da quelle che possono essere raccontate da un uomo. Women in Animation, così come altre associazioni con scopo di promuovere e tutelare le professionalità potenzialmente vittime di discriminazioni sessiste, non è solo una realtà fondamentale in tal senso, ma anche un punto di riferimento per le stesse donne che vengono stimolate a credere in se stesse e nei propri progetti. Questo è un aspetto fondamentale e a cui tengo molto, ovvero aiutare sempre più artisti a sviluppare i progetti personali in maniera indipendente, utilizzando gli strumenti della collaborazione online e sperimentando nuove forme di produzione.

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Con questo spirito il team di Mila ha creato una newsletter nella quale condividiamo ogni settimana suggerimenti e idee su come far decollare il proprio progetto di animazione indipendente: http://milafilm.us10.list-manage.com/subscribe?u=c9aeb51aa1ad6060e7fdef0c1&id=3718cca57d

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GZ: Multiculturalità, capacità linguistiche e apertura mentale: caratteristiche che di questi tempi purtroppo l’Italia non incoraggia molto fornendo modelli spesso poco adeguati; se un aspirante animatore volesse ripercorrere un cammino analogo al tuo, magari partendo da Annecy, cosa gli consiglieresti, vista anche la crisi che non ha risparmiato il settore?

CA: Annecy ha costituito una tappa fondamentale per la mia formazione professionale: da studente andavo regolarmente al festival per imparare, nutrirmi visualmente, assorbire ogni elemento espresso da così tanti artisti meravigliosi. Annecy è stato anche il mio trampolino di lancio, visto che nel 1997 Dreamworks mi ha ingaggiata proprio durante il MIFA. Annecy è un luogo magico per il mondo dell’animazione, sia d’autore che commerciale . E’ un luogo dove un giorno porterò i miei bambini, ovviamente in corrispondenza del Festival!

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Cinzia Angelini è stata anche fra gli animatori del panel “Producing for animation” all’interno del World Animation Celebration 2015, organizzato da Animation Libation, Animation Magazine e Sony Pictures Animation.

Il mio consiglio per i giovani che vogliono intraprendere una carriera analoga alla mia è anzitutto quello di crederci sempre: credere in se stessi, senza fermarsi davanti alle barriere culturali imposte dal proprio Paese, e questo sia che si decida di restare oppure di andare via. Con l’avvento di Internet nessuno ha più scuse: tutto si può apprendere, analizzare, creare e condividere, anche a partire dal computer di casa propria.
La cosa importante è di porsi una meta precisa e non mollare mai fino a che non la si è raggiunta, e subito dopo porsene un’altra, e un’altra ancora, per continuare a migliorare e a crescere. Mai ascoltare chi non crede in noi, né quelli che hanno sempre una soluzione più semplice e più comoda da imporci, e nemmeno quanti grideranno al tradimento solo perché si è deciso di andare altrove. Nulla di tutto questo è importante. Ciò che conta è lo scopo che si intende raggiungere e come fare per riuscirci, in modo da sentirsi realizzati e, di conseguenza, felici. Tutto i risultati che io, e tanti altri colleghi che si sono affermati in Italia e all’estero, abbiamo ottenuto sono stati il frutto di un sacrificio grandissimo: la mole di lavoro necessaria per riuscire a lavorare ad un livello di qualità internazionale è stata enorme. Se si vuole riuscire davvero nel campo dell’animazione occorre essere ben consapevoli che si tratta di un contesto molto difficile, che ti richiede tantissimo ma che sa regalare anche tante soddisfazioni. A chi sente di possedere un’autentica passione per l’animazione consiglio di nutrirla e poi spingerla al massimo, senza mai reprimerla facendosi influenzare negativamente da elementi esterni, qualunque essi siano.

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Grazie di cuore, Cinzia. In attesa si festeggiare con gioia il “battesimo” di Mila, auguriamo buon lavoro e “buon  vento” a te e a tutta la tua variegata “ciurma” impegnata sui perigliosi quanto affascinanti mari dell’Animazione… nel frattempo, gustiamoci il primo teaser trailer, e a presto!

(Le immagini e il video tratti dal film “MILA” appaiono per gentile concessione di Cinzia Angelini e della produzione che ne detengono i diritti in esclusiva)

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