18 Ottobre 2015 10:10

Inside/Out: perché ni – la risposta del Gatto

Un vecchio amico di famiglia, dalle lunghe frequentazioni col Continente africano, alla vigilia della pensione usava dire, per sottolineare quanto il passare degli anni avesse ammorbidito la sua indole cinica e sarcastica virandola verso una sempre più accentuata emotività, che ormai, per farlo commuovere, gli bastava “sentir suonare l’inno del Ghana”.

Ebbene, facendo i debiti distinguo, anche io nel mio piccolo sto realizzando che, a  differenza dei miei “anni più verdi”, oggi nei film che mi trovo a guardare, sia animati che live action, tendo a cercare sempre più l’emozione, quella scintilla irrazionale che ti attanaglia a tradimento senza che tu lo voglia, travolgendo l’usuale, ostentata diga di  autocontrollo che erigiamo convinti che essa sia espressione di “professionalità”. Questa trappola emotiva è scattata su di me, inesorabile quanto gradita, in più occasioni: quasi sempre nei capolavori di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, in alcune sequenze del compianto Satoshi Kon, nel “Racconto dei Racconti” del Maestro Yuri Norstein, nei gioiellini targati Cartoon Saloon, e in almeno tre film targati PIXAR, ovvero “Cars” (ultima grande prova di Paul Newman), “Up” e “Toy Story 3“, quest’ultimo toccante nel suo finale addio/arrivederci al mondo magico e fantasioso dell’infanzia, che si può preservare dall’età adulta soltanto avendo il coraggio di “passare il testimone” a qualcuno in grado di proseguirne il gioco infinito.

A prescindere dalle ultime, non esaltanti prove dello “Studio della Lampadina”, in simbiosi con la “Casa del Topo”, ero molto fiducioso che “Inside/Out” avrebbe saputo appagare la mia sete di groppone alla gola e di lacrime furtive condivise con la Dolce Metà, immersi nella magia della sala buia (appena disturbati da genitori cellularizzati e spesso assai più molesti della loro prole vociante) e nelle immagini sul Grande Schermo… ma la magia non è scattata, e la sete è rimasta inappagata.

Perché? Una risposta potrebbe risiedere nel fatto che, con tutta la buona volontà, mi riesce ormai difficile provare empatia per i turbamenti di una ragazzina di 11 anni; questo però non tanto perché incapace di sposare il cosiddetto “punto di vista bambino” che psicologi infantili, sociologi e critici cinematografici sbandierano ormai come uno slogan ogni volta che si trovano di fronte un’opera con protagonisti preadolescenti: sento tuttora notevoli affinità con il solitario, goffo e un po’ ottuso Masao de “L’estate di Kikujro” (Takeshi Kitano), con il fantasioso Andy di “Toy Story” nel suo legame con i propri balocchi, così come tuttora mi sorprendo a correre (senza fiato) con i ragazzini di Ray Bradbury sorseggiando con gioia il “vino di dente di leone” nel pieno sfolgorare di una “Estate incantata”. A mio modesto parere, la Semplificazione, che secondo gli specialisti dell’infanzia permetterebbe ai piccoli di entrare in contatto con temi adulti e con se stessi, è in buona parte un’invenzione retorica dei Grandi per illudersi di aver capito qualcosa dell’infanzia e, infine, avere uno strumento semantico che racchiuda il mondo interiore dei bambini in un recinto delimitato e facilmente controllabile. Eppure, quando i libri per l’infanzia erano “Alice nel Paese delle Meraviglie“, o “Peter Pan“, o “Mary Poppins” (quella vera, assai più inquietante e “punitiva” rispetto al modello disneiano tanto caro ai genitori) si diventava adulti comunque, senza scivolare nella psicopatia o nella criminalità, anzi, spesso si sviluppava un senso critico e una capacità immaginifica che, purtroppo, oggigiorno appare non esistere più, soffocata sul nascere da troppi modelli e morali precostituite.

“Questa è solo la tua visione, non puoi fondare una critica sui tuoi stessi pregiudizi!” – si potrebbe obiettare.

Sacrosanto.

Per cui passiamo ai punti a mio parere più oggettivi, ovvero a quelli in cui il film secondo me apre degli squarci di incoerenza narrativa e logica che finiscono per inficiarne l’efficacia empatica: anzitutto, come mi ha fatto subito notare la Volpe, si nota una non ottimale corrispondenza fra la frenesia del mondo emozionale e ciò che accade in quello reale. Mi spiego meglio, mostrando una memorabile vignetta di “Calvin & Hobbes“:

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Nel fumetto di Watterson, i funzionari della mente di Calvin sguazzano in un subconscio di seienne che appare già torbido e incasinato quanto quello di un adulto, a differenza della tanto lodata “selva oscura” di Riley in cui il massimo dell’inquietudine è rappresentato dallo spauracchio di un clown più grottesco che spaventoso. Le reazioni di Calvin nel mondo reale sono ben più pesanti e corrispondenti alle “grandi manovre” del suo cervello piuttosto a ciò che avviene nel film in esame, in cui tutto sembra risolversi in un “pas-de-deux” fra Gioia e Tristezza, con le altre emozioni in veste di mere comprimarie ben poco influenti sulla personalità della ragazzina (il massimo della rabbia consiste in lei nel rispondere male al padre, o nel troncare le comunicazioni con l’ex migliore amica). Ecco, se da una parte è ottima l’idea di mostrare come allegria e sconforto siano sentimenti legati a doppio filo, non ho trovato altrettanto acume nel modo stereotipato e piatto con cui Disgusto, Paura e Rabbia sono stati rappresentati, ridotti quasi a macchiette destabilizzanti la cui funzione pare essere esclusivamente quella di far risaltare la coppia protagonista composta da Gioia e Tristezza, le uniche cui viene concessa una vera caratterizzazione psicologica.

A questo proposito, oltretutto, vorrei segnalare un paio di questioni.

Anzitutto, nel confronto fra le centrali operative emozionali dei vari personaggi, si nota poco a poco che Riley è l’unica a possedere un parco emozioni di “genere differenziato” (due maschi e tre femmine), mentre negli adulti esse appaiono omogenee per sesso e fortemente gerarchizzate fra loro (e non si può non notare che nel padre il “leader” sia Rabbia, malgrado l’uomo appaia mite e affettuoso): quando si è verificato in loro tale processo, forse a partire dalla tanto temuta adolescenza (ben simboleggiata dal fatidico “pulsante rosso”) cui Riley sta per approdare? Oppure la ragazzina possiede una peculiare emozionalità che la differenzia da quella degli altri? Non è un quesito di poco conto, perché porta con sé l’eterno dibattito sulla “diversità” fra uomo e donna, la cui psiche nel film viene rappresentata in modo di certo efficace sul piano comico ma purtroppo in linea con certi banali stereotipi che a parole sembrano irritare la massa ma poi, dopotutto, rassicurano gli adulti sulla realtà (e bontà) dei modelli sociali e mentali comuni.
Certo che entrando nell’età adulta le emozioni assumano il sesso corrispondente al proprio “ospite” è una tesi affascinante e non priva di problematiche, ma queste lasciamole agli esperti: in queste sede ci limitiamo a segnalare quella che, a livello puramente narrativo, appare un’incongruenza o perlomeno una scelta poco giustificata.

Ciò ci introduce alla seconda questione: dove sono le altre emozioni? Nel finale del film si vede come dalla rinata e paritaria collaborazione fra Gioia e Tristezza nascano sentimenti e ricordi più sfumati e complessi, ma è possibile che nell’animo di un essere umano, bambino o adulto, restino sempre e soltanto cinque emozioni basilari a condizionare l’intero comportamento? E chi genera l’Amore e l’Odio? Gioia con Tristezza, Disgusto con Rabbia? E nell’animo stressato e compresso dell’Uomo Moderno non sarebbe più plausibile che a prendere il sopravvento fosse il nevrotico Paura (a proposito, perfetta la sua caratterizzazione al maschile!)? Un parco emotivo così limitato nel personale non è in fondo la rappresentazione grafica di quanto gli adulti ritengano elementare la psiche infantile, ridotta nel film a seguire schemi ripetitivi e automatici quanto quelli di un cane di Pavlov? Come scrive il collega Aladar, il film solleva il velo sulla sofferenza dei bambini che si reprimono per non dare dispiaceri ai genitori, ma lo sviluppo del tema appare fin troppo lineare e semplificato (appunto!) e pronto a sfociare nell’inevitabile happy ending senza invero grande pathos. I momenti che dovrebbero regalarlo, fra cui il sacrificio di uno dei personaggi secondari, non riescono mai a colpire davvero, in un certo senso arrivano “telefonati” e svuotati della capacità di colpire al cuore lo spettatore. C’è da dire che quello del dolore infantile sarà pure un tabù per l’animazione occidentale, ma per quanto riguarda il cinema orientale e le produzioni televisive d’Oltreoceano abbiamo esempi di profondità e coraggio narrativo che potrebbero insegnarci qualcosa.

Intendiamoci: il film è visivamente uno spettacolo, Pete Docter si conferma uno dei migliori registi di casa Pixar, e la qualità tecnica generale ha ormai raggiunto livelli di assoluta eccellenza. Eppure… eppure la sensazione è che si viaggi con il freno a mano tirato, scegliendo sempre la soluzione più ovvia e immediata, forse la più (appunto) “comprensibile” dal pubblico: tale esigenza di immediatezza non la riscontrammo, per esempio, nell’indimenticabile piano-sequenza iniziale di “UP”, con quel nodo alla cravatta aggiustato ogni giorno che assurge a simbolo di un’inossidabile amore coniugale. Viene spontaneo pensare che le immutabili “leggi Disney” abbiano (irrimediabilmente?) annacquato l’originalità narrativa dei ragazzi di John Lasseter. O, forse, siamo noi ad esserci abituati troppo bene, e ora non siamo più capaci di accontentarci di un buon, ottimo prodotto come, in questo caso, “Inside/Out”?

Mah.

In ogni caso, auspichiamo che l’annunciato corto sul primo appuntamento di Riley risulti migliore di quello, a dir poco deludente, dedicato al mondo di “Frozen”: almeno, qui non dovrebbero esserci canzoni!

[Eric Rittatore]

2 risposte a “Inside/Out: perché ni – la risposta del Gatto”

  1. Grazie dell’analisi. Psico. ;-) Anche per me non c’è stato quel “di più” che invece mi aveva dato UP, per dire. Troppo poco emotivamente coinvolgente (al di là degli aspetti tecnici, da te correttamente rilevati) per i miei gusti di vecchietto. O forse solo di essere umano?…

  2. Senza offesa gatto, ma le emozioni di base secondo la psicologia sono quelle (anzi, molti escludono il Disgusto) e da loro si sviluppano tutte le altre modello colori primari (e se tutte le sfumature cromatiche vengono fuori da quattro colori non vedo perché non possano bastare cinque emozioni). Magari sembra semplificato, ma non è stato fatto per svilire i bambini, è fatto perché fin ora la ricerca ha raggiunto questo risultato.
    Più grave è la parte sulle differenze di genere tra adulti. ma se per la madre e il ragazzino “folgorato” da Riley non ci sono dubbi (anche se ci si può sempre travestire) per il padre non so, baffi a parte anche da lui disgusto e gioia hanno forme femminili .
    Per il resto, sul freno tirato e la morale incipiente che rovina o limita le storie abbiamo i lungometraggi subito precedenti che lo provano tristemente.
    Il fatto che tre emozioni siano in pratica caricature dispiace anche a me, ma ancora ritengo Inside Out un film che farà epoca, magari sarà l’ultima volta per un Pixar, anche se spero di no.
    Sulla storia semplificata per esigenze di maggiore comprensibilità al pubblico invece, ma scherzi? ho sentito alcuni dei commenti più aridi e rintronati dai tempi delle scuole superiori! Anche commenti belli intendiamoci, ma molti non l’hanno capito.
    Sul fatto che in Giappone dei grandi maestri abbiano fatto opere di una profondità immensa ma amate da chiunque le veda è innegabile, ma credo che ormai l’unico grande studio che possa fare qualcosa di analogo o superiore negli USA sia la LAIKA semplicemente perché va oltre le famiglie e vuole soltanto raccontare storie. E la famiglia è sempre stata uno degli obbiettivi anche della Pixar, non santifichiamoli!
    E sinceramente mi aspettavo che colpissi sul fatto che questi si trasferiscono all’improvviso e lei sembra totalmente entusiasta senza la minima ombra. Quello si che è ingenuo e impossibili anche per me.

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