1 Maggio 2015 14:00

Omaggio a Françoise Mouly @FrancoiseMouly

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Per molti forse è soltanto il personaggio secondario di un pur celebre fumetto: la dolce quanto volitiva mogliettina francese di Artie che lo aiuta a sopportare le intemperanze del padre Vladek, intento a “sanguinare storia” nel capolavoro premio Pulitzer “MAUS” del grande fumettista e giornalista Art Spiegelman. Eppure, la graziosa “topina” (che avrebbe dovuto essere una rana, secondo lo stereotipo tratteggiato dallo stesso autore in una delle sequenze più divertenti dell’opera, ma convertendosi alla religione ebraica per amor del suocero, più che del marito, si guadagnò le fattezze “mausesche”), che di nome proprio fa Françoise, Françoise Mouly, è stata ed è ben altro e ben di più; ritengo di non offendere Spiegelman se affermo che lui medesimo, senza il talento, l’acume e lo spirito di iniziativa della sua intraprendente compagna, avrebbe faticato molto di più per raggiungere la fama attuale. – “Dietro ogni grande uomo, c’è sempre una grande donna”: spesso, però, siamo noi che facciamo di tutto per non accorgerci di loro.

Nel nostro piccolo, desideriamo tributare a una di queste un sentito omaggio.

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Nasce a Parigi il 24 ottobre 1955, seconda di tre sorelle, figlia di Josée Mouly Giron e Roger Mouly. Crebbe nel benestante 17.mo Arrondissement, il padre era un chirurgo plastico che nel 1951 sviluppò con Charles Dufourmentel il metodo Doufourmentel-Mouly di riduzione della mammella, meritando la Legion d’Onore per Ie sue ricerche.

Françoise è un’amante della lettura fin da bambina, con particolare interesse verso le fiabe illustrate, le riviste a fumetti come Pilote, e gli albi di Tintin.

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Eccellente studentessa, pare avere già segnata la strada verso la carriera in medicina, e in particolare nella chirurgia plastica: trascorre infatti le vacanze assistendo il padre sul lavoro. I risvolti etici di quel ramo della chirurgia però la preoccupano, e in essa intravede l’espressione di un’estrema insicurezza.

A 13 anni è testimone del “Maggio francese“, evento che spinge madre e sorelle a lasciare Parigi, mentre il padre resta a disposizione dei pazienti e lei con lui. Sviluppa simpatie anarchiche leggendo il settimanale radicale Hara-Kiri Hebdo, e porta queste sue nuove idee anche al Liceo Jeanne d’Arc, dal quale raccontò in seguito di essere stata espulsa circa 25 volte per aver tentato di coinvolgere le compagne nelle manifestazioni. Al ritorno a Parigi contraria non poco il genitore optando per la facoltà di architettura alla Ecole nationale supérieure des Beaux-Arts.

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Va a vivere con il fidanzato dell’epoca nel Quartiere Latino, e prende a viaggiare molto lungo l’Europa, spingendosi poi con alcuni amici fino in Afghanistan (1972), e quindi da sola in Algeria (1974) per studiarne l’architettura tradizionale. In questa occasione le rubano soldi e passaporto. La mancanza di libertà creativa che percepisce nella carriera di architetto però la respinge, e nel ’74 arriva pure il divorzio dei genitori: quello stesso anno interrompe gli studi e comincia a lavorare come inserviente d’albergo per guadagnare il denaro sufficiente a partire per New York. Vi giungerà, senza progetti concreti, il 2 settembre 1974, con appena 200 dollari in tasca.

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La Grand Central Station

In quel periodo familiarizza con l’Avanguardia artistica e cinematografica, partecipando all’opera teatrale ‘Pandering to the Masses’ di Richard Foreman (1975). Va a vivere in un loft nel quartiere di SoHo (Manhattan) svolgendo svariati lavori, fra cui vendere sigarette e giornali alla Grand Central Station e assemblare modellini per una compagnia di architettura giapponese, mentre si impegna con tenacia a migliorare la lingua inglese.

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Cercando di fare pratica linguistica anche tramite i fumetti, si imbatte in Arcade, una rivista underground di San Francisco co-pubblicata da un certo Art Spiegelman, cui viene presentata dal cineasta Ken Jacobs. Spiegelman si stabilisce a New York proprio quell’anno,  e i due prendono a frequentarsi occasionalmente.

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Dopo averne letto la strip ‘Prisoner on Hell Planet’ (1973), incentrata sul suicidio della madre Anna (Anja in “Maus”), Mouly sente il bisogno urgente di contattarlo. Una conversazione telefonica di otto ore porta a una svolta nella loro relazione. Art la accompagna in Francia quando lei deve ritornarci per adempimenti legati alla sua carriera universitaria, e una volta tornati negli USA alcuni problemi legati al visto di lei spingono la coppia a sposarsi, prima alla City Hall, e poi, in seguito alla conversione all’ebraismo di Françoise (soprattutto, come detto, per far piacere al suocero Vladek) con rito religioso.

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Dal 1978 in poi effettuano un tour annuale in Europa per studiare la scena del fumetto, riportando in patria diverse opere da mostrare al loro circolo di amici. Mouly si dimostra assai coinvolta dalle teorie di Art sul fumetto, e lo aiuta a preparare la lezione “Language of the Comics’ presentata al Collective for Living Cinema.

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Contribuisce anche a organizzare la ricca raccolta di strisce sperimentali di Art, ‘Breakdowns’. Purtroppo il tipografo ne rovinerà il 30%, e il rimanente troverà scarsa distribuzione e conseguente poca vendita. L’accaduto motiva Mouly ad ottenere il pieno controllo del processo di stampa, insieme alla riflessione su come portare un materiale tanto ‘marginale’ verso I lettori. Frequenta corsi di editoria e acquista una macchina stampante Addressograph-Multigraph Multilith che sistema nel suo loft.

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Nel 1978 inaugura finalmente una piccola casa editrice, “Raw Books and Graphics”, nome con cui da una parte intende omaggiare il vecchio “MAD e dall’altra ironizza sulle dimensioni modeste dell’operazione. Mossa da un’estetica ispirata ai costruttivisti russi, che forniva senso del design agli oggetti quotidiani, la società comincia pubblicando cartoline e francobolli di artisti underground, come Bill Griffith e il cartoonist tedesco Joost Swarte.

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Progetti più ambiziosi includono oggetti artisitici come lo “Zippy-Scopio”, un dispositivo di cartone con cui guardare una striscia a fumetti arrotolata su una bobina cinematografica che mette in scena il personaggio di Griffith ‘Zippy the Pinhead’. Più commerciabili si rivelano l’annuale ‘Guida e Mappa alle strade di SoHo’, i cui introiti contribuiscono a finanziare parecchie iniziative editioriali di Raw Books!

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Avendo in tal modo affinato le proprie abilità di editore, Mouly decide di rivolgere il proprio interesse verso le pubblicazioni periodiche.

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Il marito all’inizio si dimosta riluttante, memore dell’esperienza poco felice di Arcade, ma la sera di Capodanno del ’79 finisce con l’accettare di diventare co-editore di una nuova rivista, il cui scopo è  fornire una vetrina a quei fumetti che negli USA faticano a trovare spazio, soprattutto quei giovani autori che non praticano né il genere supereroico né quello underground, e quegli artisti europei che non coincidono con il  gusto tutto “sesso e fantascienza” dei fans di Heavy Metal”.

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La prima tiratura di “Raw” (periodicità annuale, 27 cm x 36) appare nel luglio del 1980, al prezzo di 3,50 dollari, e tra I fumetti contiene anche l’unica strip prodotta da Mouly, l’autobiografica “Industry News and Review No. 6″ in cui descrive le sue ansie alla fine degli anni ’70 e perfino i propri pensieri suicidi.

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L’eclettica antologia includeva anche “Sogni di un divoratore di crostini di formaggio”(Dreams of the Rarebit Fiend) di Winsor McCay, e estratti da “Manhattan” del francese Jacques Tardy. Ma l’avvenimento destinato a caratterizzare indissolubilmente la rivista è, inutile dirlo, la serializzazione della “graphic novel” di Artie Spiegelman, “MAUS” , che venne pubblicata come inserto a partire dal dicembre 1980 e continuò fino al 1991, con l’esclusione soltanto dell’ultimo capitolo.

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MausRealityII16p800pxwL’approccio di Mouly a questa impresa è estremamente pragmatico, dedicando grande attenzione ad ogni passo del processo di stampa: la “fisicità” di “Raw” risulta evidente in ogni numero; inoltre, si dimostra molto presente nel processo creativo degli ospiti della rivista, in controtendenza con l’atteggiamento medio degli editori dell’epoca, suggerendo modifiche e cambiamenti senza peraltro scalfire l’autonomia degli artisti. “Raw” ottiene così un forte riscontro di critica ma anche, sorpresa!, buoni esiti in termini di vendite. Viene altresì accusato di essere “elitario e intellettuale”, o anche di costituire in pratica un territorio esclusivo di Art Spiegelman. Abbastanza scontato, quando arriva il successo.

Raw Books pubblica anche “One Shots” di Gary Panter, Sue Coe e Jerry Moriarty, cui Mouly dedicò la medesima attenzione e sensibilità.

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Intanto Pantheon Books comincia a co-pubblicare i “Raw Books” e Penguin fa lo stesso con  la rivista. Conseguente cambio di formato e diversa enfasi narrativa e grafica. Accanto al lavoro la maternità: nel 1987 nasce Nadja, la primogenita, e Mouly lavorando con Sue Coe intraprende anche studi di neuroscienza all’università. Deve però abbandonare le ambizioni di laurea alla nascita di Dashiell (1991).Pages-from-symphSpace_021214

Lei e Art pubblicano l’ultimo numero di “Raw” (#3 (1991): “High Culture for Lowbrows“), essendo ormai questa lontana dall’originaria impostazione “casalinga” e constatando che ormai gli autori potevano contare su ben altre possibilità di pubblicazione.

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Nel 1992 Tina Brown diventa responsabile editoriale del prestigioso settimanale “The New Yorker”, decisa a cambiarne l’immagine rigida e conservatrice cristallizzata durante il lungo regno del suo predecessore, William Shawn. Le copertine nate sotto la sua egida provocano controversie, soprattutto una di Spiegelman nel giorno di San Valentino del 1993 che mostra il bacio fra un ebreo ortodosso e una donna afroamericana.

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E’ lo scrittore Lawrence Weschler a raccomandarle Françoise Mouly come art editor, e le due si incontrano poco dopo. Inizialmente prevenuta, Mouly viene conquistata dal carisma e dall’energia di Brown che la stimola anche a livello personale, e a cui propone un ritorno alle origini della rivista, tramite artisti che ne caratterizzino lo stile, un incremento dell’aspetto visuale (più fotografie e illustrazioni) e, soprattutto, copertine che riprendano lo stile tipico voluto dal fondatore, Harold Ross.

Brown accetta.

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Nel rispetto delle radici, ma con lo sguardo rivolto alla contemporaneità…
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… ha inizio l'”era Mouly”!

Mouly precetta diversi fumettisti e artisti, inclusi veterani di “Raw” come Coe, Crumb, Lorenzo Mattotti e Chris Ware. La tiratura del “New Yorker” raddoppia sotto la sua direzione artistica.

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un paio di copertine di Lorenzo Mattotti

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non poteva mancare il sublime Sempé!

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La Storia, un brutto giorno, si presenta di nuovo nel cortile di casa Spiegelman.

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immagini tratte da “L’ombra delle torri” di Art Spiegelman

Dal loro loft di SoHo, a dieci isolati di distanza dal luogo della tragedia, Françoise e Artie assistono al primo schianto dei due aerei contro le Twin Towers, l’11 settembre 2001: a 4 isolati da Ground Zero Nadja si trova come ogni mattina alla Stuyvesant High School. In realtà, come lo stesso Spiegelman racconterà nel suo “In the Shadow of No Towers”(da noi tradotto come “L’ombra delle Torri” , ed. Einaudi) NON videro il primo aereo schiantarsi bensì ne udirono la schianto alle loro spalle mentre si trovavano per strada in direzione nord, e a farli voltare verso il luogo del disastro furono gli occhi e le grida di una donna che procedeva in direzione opposta, ella sì “testimone oculare” dell’orrore e descritta graficamente come una sorta di Tordella (che impreca in tedesco), così come le torri ferite (e fumanti) appaiono nei panni dei Katzenjmmer Kids, Bibì e Bibò, atterriti e sculacciati da un truce Capitan Cocoricò sfoggiante un vistoso turbante islamico.

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immagini tratte da “L’ombra delle torri” di Art Spiegelman

Dopo aver recuperato Nadja, insieme all’altro figlio Dashiel presso la United Nations International School, la famiglia riunita torna a casa e qui Mouly si mette subito al lavoro su una cover dedicata all’evento che da allora diverrà quasi un paradigma di tutte le paure dell’Occidente, il giorno in cui l’America tremò e il mondo con lei: 9/11. Il risultato finale è un monumento ai caduti e insieme un’inquietante riflessione sul buco nero in cui sembra essere precipitata la civiltà: Mouly accredita Spiegelman fra gli autori, in quanto è lui a darle l’idea della silhouette delle torri distrutte al posto del total black.

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Che sia una straniera, per quanto ormai naturalizzata negli States, a esprimere con tanta efficacia il dolore e l’orgoglio ferito di un’intera Nazione, oltre a dimostrare il talento e la sensibilità di Françoise Mouly, è anche l’ennesima dimostrazione di quel meraviglioso quanto inquietante paradosso chiamato “Stati Uniti d’America“, patria naturale o adottiva amata e al contempo odiata da milioni di persone, perennemente messa in discussione, talora con ferocia, da figli pronti però a stringersi unanimi al suo capezzale, per piangerla o per proteggerla ogniqualvolta la sua esistenza viene messa in pericolo.

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Anche gli Spiegelman, dopo essere diventati genitori, hanno dovuto affrontare nuove sfide, e si sono resi conto di quanto sia difficile, alla fine del 20.mo, secolo trovare fumetti in inglese adatti ai bambini.

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Nel 2000 Mouly propone quindi la collana “Raw Junior imprint”, iniziando con l’antologia “Little Lit”, con ex autori di “Raw”, illustratori per ragazzi e scrittori come Maurice Sendak, Lemony Snicket e Barbara McClintock.

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Mouly è una sostenitrice dell’importanza del fumetto nel promuovere la letteratura presso i più piccoli, ma si scontra con lo scarso interesse da parte degli editori, e dal 2008 si decide a pubblicare per contro proprio una collana di letture facilitate intitolata “Toon Books”, con un parco autori che comprende il marito Art, Renée French e Rutu Modanconvinta del loro valore educativo, ne promuove attivamente il catalogo presso insegnanti e bibliotecari. Le pubblicazioni comprendono materiali didattici per docenti coinvolti nella Common Core State Standards Initiative.

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Nel 2012, insieme alla primogenita Nadja, edita una selezione di copertine rifiutate per la pubblicazione intitolandole “The Blown Covers”: sono bozzetti di copertina o proposte respinte in quanto ritenute “troppo audaci” dal magazine. Da questa iniziativa nascono anche un sito web, un blog e un concorso annuale per eleggere le più belle fra le “scartate”.

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Il 6 ottobre 2014 viene pubblicata la prima “cover animata” della storia: la realizza l’artista e designer tedesco Christoph Niemann e, oltre ad uno struggente omaggio a New York, l’opera – spiega Mouly – “è una vera rivoluzione: un omaggio al web e al mobile. La mente può completare i suoi pensieri qui”.

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Un piccolo esperimento lo si ritrova già in questa splendida “Blown Cover” del 2012:

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Lo stesso anno “Toon Books” lancia una collana chiamata “Toon Graphics” dedicata ai lettori dagli otto anni in su.

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Come editore e art editor, Françoise Mouly ha avuto un’influenza considerevole nella crescita qualitativa dei fumetti in lingua inglese sin dagli anni ’80, e forte è stato il suo ruolo nella tutela dei nuovi autori esteri, e più in generale nel promuovere il fumetto come forma d’arte ‘seria’ e come importante strumento educativo.

“”One of the most influential people in comics for 30 years” (Peggy Burns, associate publisher Drawn & Quarterly)

Il governo francese l’ha eletta Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere nel 2001 insignendola altresì della Legion d’Onore nel 2011, seconda Mouly a riceverla dopo suo padre negli anni ’50. La Società degli Illustratori le ha poi assegnato il Richard Gangel Art Director Award. Nel 2014 l’Eric Carle Museum of Picture Book Art le conferisce il Bridge Award per la promozione della letteratura per l’infanzia.

Trés bien fait, Mme Mouly!

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“Solidarité”: la cover del New Yorker, realizzata da Ana Juan, uscita dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo

[Aggiornamento]: dopo il tragico e feroce attentato alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015, Mouly si disse “devastata, ma orgogliosa” di aver conosciuto il periodico e i suoi autori, “provocatori nel senso più salutare del termine, non per dileggio fine a se stesso bensì allo scopo di sfidare lo status quo.” – condividendone una volta per tutte la motivazione, che non è “combattere” la religione in quanto tale, bensì lo strumentale uso politico che di essa viene da sempre fatto (non soltanto da parte di estremisti islamici, e noi italiani per primi dovremmo guardarci in casa prima di esprimere giudizi sugli altri). Inoltre, come sottolinea giustamente Mouly, il problema “culturale” è soprattutto nostro: – “non serve a molto mettersi a parlare dei fumettisti solo quando gli sparano addosso.”

Trés bien dit, Mme Mouly!

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