7 Febbraio 2015 10:00

La ‘dignità’ di un Pater familias

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“Una volta ho sentito in una riunione di matrimonio un papà dire:  – A volte devo picchiare un po’ i figli, ma mai in faccia per non avvilirli… che bello, ha senso della dignità! Deve punire, lo fa il giusto, e va avanti.” (papa Francesco I, aka Jorge Mario Bergoglio, durante l’udienza generale del 4 febbraio 2015 nell’Aula Paolo VI di Città del Vaticano)

Annosa questione: per molti, questi sono tempi permissivi, troppo permissivi, e alcuni ‘eccessi garantisti’ nei confronti dei pargoli vengono spesso stigmatizzati dai probiviri di casa nostra come ‘diseducativi’ e ‘destabilizzanti’: dopotutto, un po’ di ceffoni non hanno mai fatto male a nessuno, anzi! Nel nostro Belpaese i sostenitori della ‘pedagogia della cinghia’ non mancano, nostalgici di un’era in cui i vecchi parlavano e i giovani stavano zitti, aspettando il proprio turno di sfilarsi la cintura per inculcare la ‘buona educazione’ ai figli riottosi e ribelli.

Il sommo pontefice, dopo aver poco tempo fa sdoganato (a suon di pugni) la difesa dell’onore materno (o del proprio?), ci ricorda ora che un ‘sano’ scapaccione (non gli schiaffi, neh?), se somministrato con equità e rispetto(?) per il ricevente, potrebbe (dovrebbe?) rientrare nel bagaglio tecnico e culturale in dotazione a un buon padre di famiglia.

E le madri? Dolcezza e sovrumana sopportazione come da réclame e tradizione, oppure anche loro possono permettersi sganassoni, purché a fin di bene? Il pontefice non  lo dice, forse perché nella sua idea di Famiglia i rispettivi ruoli risultano ben distinti, e a ‘portare i pantaloni’ è soltanto lui, il ‘pater familias’. Con licenza di elargire ‘giuste’ e, ovviamente, insindacabili ricompense o punizioni.

A voler essere cattivi, si potrebbe aggiungere che per molti capifamiglia, adusi a imporre brutalmente la propria volontà sui famigliari, il non colpire in faccia costituiva un calcolato espediente per evitare di far risaltare in pubblico le conseguenze dei loro ‘metodi pedagogici’. Non è certo a costoro che si rivolgeva il discorso del papa, e anzi egli sottolinea come, anzitutto, le doti fondanti di un vero padre dovrebbero essere “dolcezza, magnanimità e misericordia.”

Condivisibile, eppure… io non sento mai parlare di rispetto e accettazione. Di compassione, tanto – ed è un termine che detesto per l’implicita messa in inferiorità del soggetto cui viene applicata – ma di rispetto e accettazione di ciò che l’altro è, o vorrebbe essere, proprio no. Francesco dà quasi per scontato che, con pazienza e perseveranza, le ‘pecorelle smarrite’ faranno prima o poi ritorno a quello che è il loro gregge autentico, al loro unico possibile ovile. Le divergenze sono contingenti, provvisorie, quasi un capriccio inevitabile dell’età e dell’inesperienza… ma la Famiglia, come la Chiesa, sa aspettare e, soprattutto, perdonare: le porte della Salvezza resteranno aperte per accogliere i giovani scapestrati e “correggerli senza avvilirli.”

Proviamo però a chiederci: qual è il limite oltre il quale la dignità di una persona viene umiliata o ‘avvilita’? Uno schiaffo è sempre peggio di una sculacciata, o le percosse fisiche vengono comunque interpretate da chi le riceve come un abuso? E con quali conseguenze? In che misura la ‘presenza’ di un genitore diventa un fardello soffocante per la prole, e quando la ‘pazienza’ invocata dal pontefice deve lasciare il passo alla coercizione e alle sanzioni anche di tipo corporale? Quanto può essere devastante, per la vita futura di un individuo, l’esperienza di una punizione da lui percepita (a torto o a ragione) come ‘ingiusta’? Chissà. Ancora una volta veniamo lasciati in balìa di noi stessi.

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Francesco I parla anzitutto ai fedeli della sua Chiesa (e si sente), ovvero a una comunità che ha scelto un indirizzo etico e comportamentale ben preciso, e dentro le cui regole e principi si rispecchia adattandovi la propria esistenza e quella dei propri cari; mettere in discussione tali principi, o Valori, non è previsto, e chi lo fa si ritrova di fronte all’abissale incertezza dell’essere genitori in un mondo senza garanzie.  Molto meglio dirsi, e sentirsi dire, che ciò che facciamo è sempre ‘a fin di bene’ e convincersi che loro ‘un giorno capiranno‘. Ma, forse, scostarsi da stereotipi imposti e da ‘verità’ più o meno rassicuranti, potrebbe costituire l’unico modo possibile per entrare davvero in relazione con la gioventù di oggi. Sperimentandone la paurosa precarietà e insicurezza di fondo.

Francamente, non considero positivo questo continuo richiamo ad una concezione di famiglia che mi appare intrisa di paternalismo patriarcale, gerarchizzazione dei ruoli, schematismo sessista e, soprattutto, scarsa empatia verso i bisogni dell’individuo. La mia impressione è che in tal modo si cerchi di tutelare più la Famiglia come concetto ed entità intellettuale piuttosto che il benessere di coloro che concretamente e peculiarmente compongono caso per caso la propria: uomini, donne, bambini, persone, individui, esseri umani reali e non categorie idealizzate (in senso positivo o negativo). Affinché possano muoversi in una realtà complessa e contradditoria come la nostra non è più possibile ricondurre tutto a poche, semplici formule paternalistiche che spesso paiono pure contenere impliciti rimproveri verso chi le riceve: mi perdoni, Santità, ma con quale coerenza può rimproverare a una fedele di aver ecceduto nelle gravidanze, dopo che la fertilità nel matrimonio è sempre stata esaltata dalla dottrina ufficiale, e senza nemmeno fornire un’alternativa valida?

“Sia responsabile.” – ha intimato a quella donna.

Guardi che i figli si fanno in due, di solito. Essere davvero ‘responsabili‘ significherebbe utilizzare dei contraccettivi, dato che imporre l’astinenza è molto più facile con i giovani che con una coppia sposata in cui, magari, si ragiona ancora per ‘doveri coniugali’ e comunque il maschio reputa degradante prendere precauzioni e alla donna è stato insegnato che farlo è un peccato mortale. Queste ultime convinzioni tuttora vengono espresse a gran voce, anche su pubblica piazza mediatica, Santità, e forse sono all’origine del fatto concreto che Lei si ritrovi davanti madri-coniglio (l’espressione è Sua) con sette parti cesarei, o ragazze giovanissime già alle prese con gravidanze indesiderate: certi problemi non si risolvono a scappellotti o invitando ad una castità che, mi perdoni, non siete stati capaci di preservare nemmeno dentro le mura della vostra Casa. Se davvero conosce  dei ‘metodi leciti’ per ridurre la procreazione indiscriminata, nonché il rischio di malattie sessuali, e il cui peso possibilmente non ricada unilateralmente su una metà della coppia, direi che i tempi sono maturi per renderli pubblici… a patto che non siano sempre i soliti noti, applicabili per lo più in contesti ‘protetti’.

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Mi rendo cono che sta diventando un discorso troppo complesso, e del resto non ho il diritto di prendere la parola a nome di coloro che i figli ce li hanno per davvero, e lottano ogni giorno faticosamente per crescerli e fornire loro qualche difesa contro un mondo che fa spesso paura.

Perché dunque scrivere queste righe? Forse soltanto perché non riesco ad accettare che sia possibile maltrattare qualcuno ‘con dignità’. Ma può darsi che io abbia travisato il senso della frase.

Può darsi.

[Eric Rittatore]

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