Come è inevitabile, fra gli interrogativi che la strage orrenda nella redazione di Charlie Hebdo sta suscitando in queste ultime ore c’è anche quello se sia giustificato diffondere su tutti i mezzi di informazione le vignette ‘maledette’ del periodico francese: coloro che lo stanno facendo si appellano alla necessità di difendere la libertà di espressione senza cadere nel ricatto dei terroristi, chi ha deciso di non pubblicarle sostiene che il diritto di critica non può offendere pesantemente le ‘convinzioni’ altrui ma soprattutto non vuole accollarsi il rischio di ‘provocare’ nuovi attentati.
Non è un dilemma di poco conto, specialmente per chi ha la responsabilità della sicurezza di una redazione, e di colleghi che per il solo fatto di disegnare una vignetta potrebbero mettere a rischio la loro vita e quella degli altri: sarebbe facile in un momento come questo, in cui la rabbia per ciò che è accaduto tende a offuscare la ragione, dividere l’informazione tra ‘eroi’ e ‘vigliacchi’, ma significherebbe assumere quella medesima ottica monistica che muove coloro che si sono macchiati dell’atroce delitto.
Libertà di espressione significa anche non essere d’accordo su qualcosa che sembra giusto ai più, e poterlo esprimere democraticamente senza incorrere nel pubblico ludibrio o in sanzioni peggiori… i vignettisti di Charlie non ce l’avevano con la religione islamica, ma attraverso i suoi simboli più ‘mediatici’ (quelli ovvero che l’integralismo utilizza come una falce per mietere qualsiasi voce dissidente) si proponevano di puntare l’attenzione su problemi reali, concreti, quali esistono in qualsiasi contesto totalitario e, non di rado, anche in quelli che si considerano ‘liberali’. Sono stati trucidati perché coloro che li hanno uccisi non concepiscono l’eventualità di un confronto, di un dialogo che metterebbe a dura prova le loro certezze costruite su slogans e sulla coercizione esasperata del prossimo, così come un integralista cattolico’, un ebreo ultraortodosso (per citare solo i Monoteismi), oppure un qualsiasi naziskin imbevuto di retorica curvaiola, preferiscono in genere distruggere, sopprimere, censurare le voci che li mettono di fronte alla fragilità della loro ‘fede’.
Personalmente, e col massimo rispetto per chi non la pensa così, posso provare a spiegare che ritengo ‘giusto’ o, meglio, ‘necessario’ mostrare le vignette di Charlie affinché più persone possibile possano farsi la propria opinione sull’accaduto, provando a comprendere come 12 persone siano morte crivellate di colpi perché avevano scherzato su certi argomenti ‘scottanti’, in modo che queste stesse persone provino in tutta coscienza a immaginarsi un mondo in cui questo tipo di ritorsione sia pratica ricorrente: non è difficile, in alcune parti del mondo (e non solo il Medio Oriente) funziona proprio così, e l’ultimo Nobel per la Pace, Malala Yousafzai, si è trovata un proiettile in testa per molto, molto meno.
Ciò che occorre chiedersi ora non è se le vignette di Charlie ci piacciano o meno (io stesso trovo tuttora discutibili molte di esse), dividendoci da bravi ultras fra coloro che ‘mi piacciono’ e quelli per cui ‘se la sono cercata’: non è questo il punto. Il punto vero della questione è un altro, ed è fondamentale per decidere se questa ‘battaglia’ valga la pena di essere combattuta: desideriamo una società in cui TUTTI possano esprimersi liberamente e DISCUTERE le posizioni contrarie in un clima costruttivo, che guardi verso il futuro senza rattrappirsi su arcaici pregiudizi, che sia consapevole della diversità del mondo e delle differenze umane e sia disponibile ad affrontarne le problematiche, correndo i rischi che tale processo comporta evitando di accollarne il prezzo a questa o a quella minoranza adibita a ‘capro espiatorio’? O preferiamo chiuderci nel nostro quotidiano, rassicurante livore delegando opinioni e sentimenti a una parte, politica o religiosa, che ci culli in un’illusoria sicurezza da pagare al prezzo di una sempre minore autonomia personale?
E non mi riferisco soltanto al fantomatico ‘Califfato’ sognato e idealizzato da coloro che aderiscono alla sedicente ‘Guerra Santa’ contro l’Occidente, ma anche ai continui, subdoli attentati che il vivere civile subisce anche da parte delle Istituzioni stesse in nome di connivenze e inciuci che nulla hanno a che vedere con una società laica e moderna.
Si tratta di scegliere: la libertà è difficile e spaventa – e di solito non porta certezze con sé bensì confusione e smarrimento – ma l’alternativa che ci propongono coloro che hanno spazzato via le matite di Charlie Hebdo è quella di cui parlava George Orwell in ‘1984’:
“Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre.”
I nostri padri hanno conosciuto questo scenario, io per mio conto avrei preferenza di no.
Per questo motivo: “moi aussi, je suis Charlie … et je suis Nigerien.” – perché, ricordiamolo a quanti parlano di ‘guerra di civiltà’ e ‘assalto ai valori dell’Occidente’, chi finora sta pagando il prezzo più alto della barbara ferocia di questi assassini sono coloro che spesso, con leggerezza, gettiamo nello stesso onnivoro calderone denominato ‘ISLAM‘ in cui vittime e carnefici diventano senza distinzione dei ‘nemici’ per il nostro orticello.
Agire secondo coscienza: altro, non ci è concesso.