La Sorte e le sue Carte

Se la memoria non m’inganna, Dario, mi par di ricordare si chiamasse il mio amichetto di quando avevamo 6, 7 o 8 anni, che si trovava a un paio di portoni di distanza, sull’altro lato della stessa via (allora senza nome e protagonista di molti miei sogni, anzi incubi, per decenni e decenni, e ancora li ricordo) in cui abitavamo in quei lontanissimi primissimi anni 60 del secolo scorso. 

Ricordo una volta che andai a trovarlo e i suoi gli diedero una moneta da 500 lire per andare a prendere il latte. Uscimmo insieme e lui mi disse che sarebbe finita male, perché ogni volta che gli davano una moneta per comprare il latte, a lui cadeva e la perdeva e doveva tornare a casa a essere sgridato e, immagino, picchiato, come usava all’epoca (pur se non in proprio tutte le famiglie) e poi gli davano un biglietto da mille lire per finire la commissione. “Ma la fai cadere tu?” – “No, no. Ma mi cade sempre!”
Nemmeno il tempo di girare l’angolo della strada per arrivare in latteria e, ecco!, la moneta cade e rotola dritta verso un tombino. Non potevo crederci… Tornammo indietro e subì la reprimenda prevista. Inutile ch’io parlassi in suo favore dicendo che non aveva fatto nulla intenzionalmente… 

In quegli anni ti spedivano da solo dal giornalaio, dal panettiere, in latteria e altrove, anche se eri un bambino, certo. Le strade erano quel che erano, in quel che allora era una delle periferie di Torino. Attorno al palazzo campi a perdita d’occhio e bialere (bealere) e lucciole in estate e prati di ogni sorta e collinette e lucertole a cui i “bambini cattivi” staccavano le code nonostante io dicessi loro di lasciarle in pace. Campi che poi sarebbero stati sacrificati tutti per far posto alla speculazione edilizia. D’altronde la FIAT aveva bisogno di case su case per gli operai che arrivavano a frotte dal sud d’Italia, spaesati, loro che erano vissuti da poveri in campagne piene di sole e si trovavano, dopo un lunghissimo e faticosissimo viaggio, trattati di merda razzista dagli autoctoni (“Non si affitta ai terroni” e tutto il resto) a cercare di farsi capire, per giunta con lingue locali molto diverse fra loro, in queste periferie in cui la nebbia si tagliava col coltello, come si diceva ai tempi, e l’inverno era davvero freddo. 

Per la cronaca trattamento analogo lo ricevevano anche i poveri immigrati veneti o i rifugiati friulani, tanto per capirci, con le dovute eccezioni quando incrociavano famiglie che erano dotate di maggiore umanità, o che magari avevano a loro volta degli emigranti in famiglia e capivano che si è poveri tutti allo stesso modo, più o meno abbronzati e qualunque lingua si parli. 

Nei cantieri che di lì a poco avrebbero invaso tutto, noi bambini entravamo la domenica (dopo la messa) da pertugi vari e giocavamo tra ammassi di tavole di legno, chiodi arrugginiti, mattoni, mattonelle, scavi e ogni sorta di roba edilizia. A rischio di malattie e morte, ovviamente, come usava all’epoca, però potevi portarti a casa un po’ di bellissime (si fa per dire) piccole mattonelline colorate accatastate per i bagni degli alloggi. 

E’ la sorte che dà le carte, diceva (grosso modo) la brava zingara della Luna Nera, ed è vero: a me è andata bene, ad altri no. Anche quando giocavamo, sempre noi bambini, divisi in bande feroci e violente (ne avrei dovute affrontare altre, crescendo, altrettanto stupide, ma ben più malvagie), dopo aver raccattato tesori (scarti di uffici et similia) nelle discariche a cielo aperto, lanciandoci sassi, quando non vere frecce fatte con del simil bambù che cresceva ai bordi delle bialere, usando  archi fatti coi legni dei grandi cespugli ante palazzinari, con le punte delle frecce fatte di fil di ferro arrugginito. Tetano mortale a gogò, occhi persi per dardi acuminati e altro ancora avrebbero potuto cogliermi. Per fortuna avevamo tutti una pessima mira, nonostante l’impegno messo nel cercare di massacrarci come nei film di indiani e cow boy, e, comunque, è sempre  solo la sorte a dare le carte. 

All’epoca il mio cervellino bacato (che il trasferimento da Roma a Torino aveva messo sotto attacco brutalmente) mi dava la sensazione, quando ero in giro per le collinette e i prati da solo, di aver sempre alle spalle qualcuno, che ovviamente non c’era. “E’ il tuo angelo custode” mi si rassicurava. Ah, le menzogne che le mamme  inventavano per i propri figli, quando non avevano scienza e verità vere da offrire… Ma la sensazione era inquietante. Allora non potevo sapere che fosse un fenomeno già studiato. Immaginavo anche, a volte, che dietro di me ci fosse il nulla e che comparissero le cose solo quando mi giravo… Ma non avevo neurologi o psichiatri o altri scienziati a spiegarmi le cose della vita, e termini come derealizzazione, depersonalizzazione e allucinazione non erano nel mio vocabolario infantile.

Ma tornando al mio amichetto d’infanzia, il papà del povero Dario aveva una micidiale Luger tedesca dei nazisti, nello sgabuzzino, e, di nascosto, il mio coetaneo me la fece vedere come un trofeo. Accipicchia!… Suo papà l’aveva sottratta a un nazista perché era coi partigiani, o era la sua di servizio perché era nella Repubblica Sociale Fascista? Chissà. Era comunque un (funzionante) cimelio di guerra. Ce la siamo passata più volte, ma non ci siamo sparati. La sorte e le sue carte.

Ah, già che ci siamo, anche io ero considerato un “terrone”, nonostante il mio piemontesissimo cognome, perché arrivavo da Roma. I bambini miei coetanei mi sbattevano contro un muro e mi forzavano (non a botte, perché avevo già gli occhiali e in quei tempi nemmeno Batman e Robin potevano fare a botte se non si toglievano tutti gli occhiali, prima) a parlare in “romano”. Io non sapevo che non “potevano” pestarmi per gli occhiali, e quindi, letteralmente con le spalle al muro, cercavo di farmi venire in mente velocemente qualche parola “romanesca” per accontentare i bulletti, nonostante, purtroppo, i miei mi parlassero solo in italiano standard, invece che nelle loro rispettive lingue madri (trentino e piemontese). “Parlaci, falli ridere!…” mi dicevo.
E loro ridevano a crepapelle, come fessacchiotti quali eravamo tutti a quell’età, e anche in quei casi la sorte aveva avuto per me delle carte passabili.

L’articolo La Sorte e le sue Carte proviene da afNews Fumetto e dintorni dal 1995 non profit journalism.

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