Ognuno ha i propri Topolino e Paperino

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Pagina di storyboard per la storia I Tre Samurai, in seguito disegnata da Claudio Sciarrone

Negli anni novanta, quando lavoravo per la Disney Italia, ho dovuto offrire la mia personale versione di Topolino (e Paperino). Si sa che esistono tante versioni di un personaggio quanti sono gli autori (e, spesso, tante versioni anche per un singolo autore, man mano che invecchia, l’autore). Ed esistono tante interpretazioni di un personaggio quanti sono i lettori, perché ciascuno di noi ha le proprie piccole sfumature.

Io ero lettore di Topolino dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso (lettore poi di fumetto franco-belga e italiano, dall’inizio degli anni sessanta, e poi lettore di fumetto statunitense e tutto il resto). Questo mi consentì di arrivare alla scrittura Disney con una stagionata esperienza e una consolidata (quanto elastica) opinione. Il mio Topolino era una persona buona, attiva, naturalmente disponibile quanto lo stereotipo del bravo boy-scout, soggetta tuttavia anche a momentanee fasi depressive e a cadute di autostima recuperate però con discreta rapidità. Una fortunata produzione equilibrata delle endorfine, insomma. Molto simile a Tintin, scoprii molto più tardi. Il mio Paperino di allora era un essere umano sfaccettato, vagamente ciclotimico, con comportamenti comuni alla maggior parte della popolazione maschile umana, con sfasamenti imprevedibili nei livelli di serotonina. Decisamente simile al capitano Haddock (scoprii molto più tardi). Quando poi affrontai l’alter ego di Paperino, Paperinik, non potei evitare di farlo andare in crisi depressiva (prevedibile, in fondo, considerando la citata situazione della serotonina), a causa del suo insulso ruolo di difensore della legge e del patrimonio dello zio, tanto distante dalle sue origini di “vendicatore di se stesso” (ben più simile al giustiziere della notte, sia pure in salsa Disney, che non a un supereroe). Dovetti farlo andare molto lontano perché potesse ritrovare un senso alla sua mascheratura, un senso vero, finalmente una sensazione di vera utilità per la collettività pur se ben altra rispetto a quella paperopolese. Insomma, Paperinik, che in origine rappresentava il riscatto personale del papero (italiano e vessato – avrei considerato decisamente improbabile che il Paperino di Carl Barks diventasse Paperinik), si era nemmeno troppo lentamente trasformato invece in banale guardia notturna (con una contraddizione interna devastante dal punto di vista neurologico). Nella mia personale visione del papero, egli non ha potuto certo evitare di andare drammaticamente in crisi, per uscirne solo riscattando, finalmente, non tanto Paperino quanto Paperinik stesso, gettando la maschera (anzi, facendone qualcosa di meglio). Questa è una storia che non puoi aver letto e difficilmente leggerai mai. Ma se, per una qualche fortunata contingenza, ti capitasse l’occasione, riflettici su.
Nelle storie di paperi e topi (nelle storie in genere) c’è molto da scoprire sulla  natura umana individuale e collettiva, filtrata dalla personalità dell’autore e da quella del lettore. Non dico che leggendo (o facendo) fumetti si risparmia sullo psicanalista e sul neurologo (perché, quando la malattia è seria, leggere o fare fumetti non solo può essere praticamente inutile, ma può diventare quasi impossibile quanto fare qualunque altra cosa che prima della malattia ci piaceva tanto), ma prima che la faccenda diventi grave, forse un piccolo aiuto alla auto riflessione potrebbe anche darlo, chissà, magari quel tantino che basta per capire che è ora di andarci davvero, dal neurologo e… op-là, un’altra vita salvata, Topolino/Paperino!
 
 
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[Attenzione: questa non è una rubrica di medicina curata da esperti scienziati – non prenderla sul serio!]
 
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Appunti stilati in Africa per la storia di Paperinik – il campo era in mezzo alla savana, fuori del circuito turistico, all’interno di un gruppo di biologi che si occupavano di biodiversità e delle prede dei grandi felini
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Appunti stilati in Africa per la storia di Paperinik

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