Vita da cani

MacchiaCiavola
Vita da cani. Si dice, sì, ma non sappiamo davvero come sia. A stento ci rendiamo conto di cosa sia la nostra vita, quella da scimmia mutata e, come tutto nel poco di universo che conosciamo (poco, per giunta), continuamente mutante. E vaneggiamo di “evoluzione” senza forse aver ben capito cosa significhi. Giacché, è bene saperlo, non significa “diventare migliori”, ma solo, alla fine della fiera, avere avuto la fortuna di essere mutati di quel pochissimo che è bastato per sopravvivere ai cambiamenti attorno a noi. Per cui, in fondo, non è che gli altri animali di questo stupendo pianeta (per quanto mal frequentato da quelle scimmie isteriche che chiamiamo umani) siano meno “evoluti” di noi. Per niente. Tutti abbiamo avuto la fortuna di essere mutati (come succede a ogni nuova nascita) quel poco che è bastato per farci sopravvivere ai mutamenti contingenti. Tutto qui. Siamo tutti nella stessa identica barca. Noi, col nostro cervellone da dementi isterici e violenti, quanto sensibili e geniali a volte, e tutti gli altri, ciascuno col le proprie caratteristiche, tutte dimostratisi valide per poter arrivare fino a oggi. Domani, chissà, ma questa sarà un’altra storia e chissà chi la vivrà e chissà se la racconterà a qualcuno.
Noi, supponenti e spesso arroganti, usiamo i nomi che abbiamo dato agli altri animali di questo pianeta per indentificare caratteristiche umane: cane, maiale, falco, aquila… Ma, ovviamente, non sappiamo un granché dei nostri coinquilini. Per carità, non possiamo sapere un granché nemmeno delle persone con cui viviamo, in realtà. E persino di noi stessi non capiamo molto. Figuriamoci degli altri animali (per non parlar delle piante eccetera, ma qui andrei un po’ oltre…). Ci pompiamo tanto, di diamo un sacco di arie, ma cosa sappiamo noi, davvero, per esempio, di cosa passa per la testa di un animale? Anche solo del cane o del gatto che vive con noi? Ci tocca affidare ai poeti il compito di immaginarlo e descriverlo, come fosse vero, anche se vero non è. Perché, in fondo, abbiamo bisogno di non sentirci soli e vorremmo che tutto ci parlasse e che noi potessimo parlare con tutto. E spesso lo facciamo, sì, pur sapendo che non è vero. Magari pensiamo “ma sì, parlo col computer, anche se non mi risponde: forse sono solo io che non sono capace di sentirlo, chi può dire?…” E se non è il  computer è lo specchio, il lavandino, un albero, un gatto, un sasso, un cane… Non si fa forse lo stesso con ciò che spesso viene chiamato “Dio”? Si parla, non si sente risposta, ma si parla. Ci si convince che c’è, che ci sente e ci vede, ma che noi non siamo capaci di sentire i suoi “suoni”, di vedere la sua “luce” e via così. Ma si parla. A volte si pretende una risposta. A volte ci si offende. Forse a vuoto, giacché parlare di una Divinità e come parlare degli Gnomi: non si può dire ci siano, ma nemmeno che non ci siano, e allora ognuno si immagina quel che gli pare, a volte fino al fanatismo più assurdo che considera gli “altri” (gli atei, quelli di altre credenze, quelli anche solo leggermente diversi da sé) come nemici assoluti, pur di farsi contento, pur di avere una speranza, pur di non sentirsi solo… Demenziale? Eh, come dir di no. Eppure questo siamo, noi umani: scarpe fini e cervello grosso, altro che storie. Così grosso che dentro ci sta di tutto, ma proprio di tutto, il peggio e il meglio che si possa immaginare, la speranza e la disperazione, la solitudine assoluta e la necessità (estrema fino all’irragionevolezza) di non sentirsi soli. Con questo cervello, abbastanza bacato, cerchiamo di superare le nostre paure, la nostra solitudine, cercando di comunicare. Con qualunque cosa capiti a tiro. Il sasso di prima, il Dio citato (o più d’uno, nel caso non bastasse), un altro essere umano, un cane…
Per il momento pare che il massimo della comunicazione possibile sia quella fra esseri umani (anche se la storia consente di avere dubbi, sull’efficacia della nostra comunicazione interpersonale, ma tant’è). Ma evidentemente non ci basta.
E la parola passa ai poeti, che danno voce e segno a chi non siamo in grado di raggiungere (più di tanto) con la nostra comunicazione. Renato, poeta del fumetto, si mette lì, lascia frullare il suo cervello (bacato, anche il suo, certo, magari in modo leggermente diverso da quello di altri) e diventa un cane.
Ma non basta, coinvolge nella sua lucida follia un bel gruppetto di disegnatori che diventano, a loro volta, i bardi di un cane. Coi loro segni ne raccontano i sentimenti e i ricordi. Come fosse vero. Come fosse vero…
Vero non è. Possiamo piangerci su tutte le nostre lacrime (e solo a pensarlo mi viene il groppo in gola), ma vero non è.
Renato può sentirsi cane quanto vuole: non è un cane. “Ma ci posso provare!”, potrebbe aver detto (e pensa, tu che leggi, che persino questo virgolettato è una citazione: ma la cogli? O, se non te la spiego, non la puoi trovare nel tuo cervello? Siamo umani tutt’e due, ma è ancora così difficile comunicare da un cervello all’altro?). Anche non l’avesse detto, l’ha fatto, e con lui i suoi “bardi del cane”. Un esercizio inutile, visto che, in realtà, non sappiamo nulla di cosa “pensi” un cane, visto che non riusciamo a capire bene nemmeno cosa “pensi” un altro essere umano? Tutt’altro.
Renato e i suoi ci portano comunque in quell’altro mondo, anche se per forza solo immaginato, il mondo di un cane che ha vissuto la propria vita, ha conosciuto il proprio mondo e anche gli altri strani animali che lo abitano, quelle scimmie isteriche, violente e presuntuose, che, a volte, sanno essere, anche loro – persino loro, così piene di quello strano sentimento che chiamiamo “amore”. E detestano così tanto la solitudine.
[Testo integrale della mia prefazione al volume Macchia (Phasar edizioni) di Renato Ciavola, disegnato dallo stesso e dai suoi allievi.]

3 risposte a “Vita da cani”

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: