Continua l’approfondimento sui cortometraggi in gara al Festival d’Animazione di Annecy 2024.
In questo articolo si analizzeranno quelli contenuti nel quarto gruppo di cortometraggi in concorso. Con l’aggiunta delle informazioni raccolte durante la “P’tits Dej du court” tenutasi venerdì 14 giugno nel piccolo bar “El pueblo” poco lontano dal Bonlieu.
Il primo corto del gruppo è stato “The Car That Came Back from the Sea” di Jadwiga Kowalska realizzato a disegni animati, CGI e rotoscoio per la Svizzera.
Il corto ha per protagonista un ragazzo di un pesino della Polonia dei prima anni ottanta che aveva come ambizione quella di comprarsi un’automobile. Quando finalmente riesce a averne una decide di festeggiare partendo con i suoi amici per un viaggio attraverso il paese. In questo viaggio vedono per la prima volta le grandi città polacche e si rendono conto della grande crisi economica che stava vivendo. Entrano in contatto con le grandi manifestazioni di protesta e le azioni di Solidarność, ma restano con il loro obbiettivo di divertirsi e raggiungere il mare. Durante il viaggio l’auto ha numerosi incidenti e si unisce a loro una ragazza. Il vedere di continuo lo stato in cui versa il paese inizia a far nascere in loro l’idea di attraversare la cortina di ferro e andarsene via.
Un cortometraggio realizzato con uno stile minimale, ma capace di catturare lo spettatore fin dal primo momento grazie alla voce narrante, a un fascino indiscutibile e alla ricostruzione ben fatta del periodo storico. Possiede il fascino del racconto di un fatto reale e del viaggio come esperienza che aiuta a scoprire se stessi. Cosa che lo rende un corto indimenticabile.
L’autrice è felice della proiezione avvenuta il giorno prima e pensa che quello di Annecy sia il pubblico migliore che possa capitare. Il suo è un corto sulla Polonia degli anni ‘80, ma è anche la storia dei suoi genitori ed è basato su interviste che ha fatto ai protagonisti di quel viaggio in auto. Lei è cresciuta in Svizzera, suo padre è morto venticinque anni fa, ma la madre è viva e in passato le ha chiesto perché non fossero in Polonia ottenendo risposte vaghe. I suoi genitori sono emigrati quando erano appena ventenni, essendo sempre vissuti nel loro paesino hanno davvero scoperto la Polonia durante quel viaggio e si sono resi conto che la loro nazione versava in una crisi terribile e che loro volevano vivere.
Per realizzare il corto ha fatto cinque interviste, che in alcune parti non coincidevano. Per questo ha deciso di usare uno stile minimale, sia nel testo che nello stile, avvalendosi del rotoscopio il minimo e facendo in modo che non si notasse.
Il protagonista del corto è il ragazzo che ha accompagnato i suoi genitori a Vienna, ma dopo aver aiutato tutti i suoi amici a andarsene tornò nel suo villaggio, emigrando anche lui solo dieci anni dopo. Nonostante non fosse un suo parente è stato facile per lei mettere in lui tutte le loro visioni e racconti. Lei ha conosciuto tutti i passeggeri della macchina e le sembra assurdo che un gruppo così numeroso potesse andare in giro su di un’auto da cui cadeva uno degli sportelli mentre viaggiavano. La foto alla fine del corto è di sua madre, sembra essere l’unica foto di quel viaggio e di quell’auto che sia rimasta. Chiude l’intervista dicendo che il cortometraggio è piaciuto molto in Polonia.
Il secondo corto del gruppo è stato “Retour à Hairy Hill” di Daniel Gies realizzato in stop motion per il Canada.
La storia racconta di una famiglia che vive in una fattoria isolata nella foresta canadese. La figlia maggiore si occupa di tutto, il padre è assente, la madre passa tutto il tempo chiusa nella sua stanza e i figli vedono con terrore che si sta trasformando in un corvo. Un giorno la madre completa la sua metamorfosi e sparisce. La figlia maggiore tenta di badare ai suoi tre fratellini, ma anche loro iniziano a trasformarsi in animali, la disperazione sale e l’unica speranza sarebbe andarsene e raggiungere la città, ma non tutti potranno farlo.
Un cortometraggio tetro, che mescola efficacemente atmosfera horror e dramma sociale. La povertà e l’isolamento sono elementi che raccontano la distruzione di una famiglia e il ritrovarsi sola di una ragazzina, decisa a sopravvivere mentre chiunque attorno a lei sembra perdere la speranza e rinunciare alla propria umanità. Il fatto che tutto il corto sia realizzato con scenografie e personaggi tridimensionali creati con un’impressionante tecnica di carta ripiegata da un fascino quasi fiabesco al tutto.
L’autore rivela che il corto racconta la storia di sua nonna. Il bisnonno era una star dei rodei che un giorno non tornò più. Dopo alcuni mesi di depressione la bisnonna scomparve nei boschi abbandonando i figli, che finirono sotto le cure della figlia maggiore, che era sua nonna. Alla fine la famiglia di cinque fratelli venne presa in consegna dalle autorità e messi in un orfanotrofio, dove vennero adottati da persone diverse. La nonna aveva promesso loro che un giorno si sarebbero riuniti, ma non lo ha mai fatto ed è vissuta nella vergogna di non esserci riuscita e che i genitori fossero scomparsi.
Lui ha cercato di scoprire di più su questa storia, ma la sua famiglia si rifiuta di parlarne e per saperne di più ha girato le città dove sua nonna ha vissuto e intervistato chi la conobbe all’epoca. Il problema è stato che tutte le storie erano diverse,così ha deciso di farne una fiaba.
Per realizzarlo ci sono voluti dieci anni, di cui due per fare materialmente il film. Ha deciso di realizzare i pupazzi con la carta perché è un materiale fragile e direttamente collegata alla natura. Dopo anni di preparazione la produzione è stata relativamente veloce.
La scena di quando i bambini entrano nell’acqua e si trasformano è importante, ma lui e gli altri erano spaventati che potesse essere interpretato come un suicidio. Per questo ai bambini non è stato dato un volto. Per sottolineare la separazione i bimbi si trasformano in animali di specie diverse che non passano mai tempo insieme, facendo capire che non potranno mai più essere una famiglia.
Alla fine dell’intervista è intervenuta Roxann Vaudry-Read, direttrice di produzione di E.D. Films, per raccontare di come loro, uno studio specializzato nel fare pubblicità, abbiano deciso di realizzare il corto e di produrlo.
Il terzo corto del gruppo è stato “Papillon” di Florence Miailhe realizzato in animazione dipinta su vetro per la Francia.
La storia inizia con un uomo anziano che nuota nel mare e ricorda la sua vita, iniziata in un paese della costa algerina. Lì da bambino era spaventato dall’acqua, ma con l’incoraggiamento degli amici impara a nuotare. Passati gli anni il bambino è diventato una giovane promessa del nuoto stile farfalla e si trasferisce il Francia dove inizia a vincere gare importanti e viene qualificato per le olimpiadi di Berlino, ma c’è un problema, il giovane nuotatore è ebreo. Nonostante la solidarietà dei suoi compagni di nuoto le persecuzioni aumentano e lui, sua moglie e sua figlia vengono deportati. Sopravvissuto ai campi di concentramento riesce a riprendersi e partecipare alle prime olimpiadi del dopoguerra, vincendo di nuovo.
Un cortometraggio dipinto con arte e ispirato a una storia vera che è in grado di trasmettere una forte emozione per le vicende raccontate. La narrazione è scandita con salti temporali ben studiati che riescono a raccontare le parti salienti della vita del protagonista, sia nei suoi successi che nelle tragedie. La trasformazione di persone e elementi naturali è spesso utilizzata come metafora, rendendo tutto ancora più poetico. Sicuramente tra i migliori corti selezionati.
A tre anni dal lungometraggio “La traversée” l’autrice è tornata a Annecy con questo nuovo corto, definito subito come sublime. Lei racconta che l’idea per questo cortometraggio le venne mentre stava producendo il film ed erano arrivati a un punto dove sembrava che non sarebbero riusciti a finirlo. Fu allora che si ricordò di quando suo padre gli aveva raccontato di aver conosciuto un campione olimpico e si mise a cercare per vedere chi fosse. Scoprì che si trattava di Alfred Nakache, campione olimpionico di stile farfalla e che lei, a dieci anni, aveva imparato a nuotare a farfalla avendo come insegnante suo fratello. Da queste ricerche si accorse che Alfred Nakache aveva una storia incredibile, quasi del tutto sconosciuta ai più e ignorata persino nella sua città natale. Spinta da questo, per la prima volta nella sua carriera ha realizzato un cortometraggio su un personaggio reale. Ma una realtà che serve come scusa per essere rivisitata tramite la fantasia. Lei ha sempre amato nuotare e l’acqua è un elemento che non manca mai nei suoi film, in questo voleva usare tutte le metafore legate all’acqua: i tuffi, la trasparenza e l’andare in immersione per poi riemergere. Le scene dove i suoi compagni si trasformano in delfini è dovuta al fatto che lui faceva parte dal club di nuoto dei Delfini di Choec, che lo protessero quando gli ebrei algerini non vennero più considerati francesi.
Il quarto corto del gruppo è stato “Preoperational Model” di Philip Ullman realizzato in CGI per i Paesi bassi.
Il corto inizia mostrando una grande villa dove vive una creatura umanoide, con volto di animale, coperta di pelo e di strane escrescenze rosse che la fanno apparire piuttosto grottesca. L’espressione è stralunata e indossa abiti femminili d’epoca vittoriana. Appare un secondo personaggio che la chiama regina e dice di essere la sua dama di compagnia. La cosa va avanti finché la principessa chiede una pausa. In realtà le due stanno immaginando tutto per gioco, prima di partire per un lungo e noioso viaggio in treno, accompagnate da persone che non si vedono mai in volto.
Un cortometraggio difficile da inquadrare, con protagonisti dall’aspetto talmente originale da fare passare quasi in secondo piano la vicenda narrata. Ci si domanda se abbiano una qualche malattia e siano ricoverate in un centro isolato. Per l’intero corto le si vede comportarsi come delle bambine che giocano da sole annoiate, ma chi scrive non poteva smettere di pensare che fossero adulte malate che si comportavano da bambine.
L’autore racconta che il corto è nato dalla sua passione per la psicologia dei bambini e i giochi dove interpretano diversi ruoli. Gli chiedono se sia una relazione madre figlia, ma l’idea è che i due personaggi abbiano personalità diverse, giocano interpretando dei ruoli e che una è più forte e domina l’altra. La stranezza del design dei personaggi è dovuta al fatto che sono fatti unendo differenti parti di animali, tra cui il corallo. Per lui queste creature rappresentano la fusione di ogni specie e sono belle. Per questo gli sembra interessante che la gente li veda come malate o le trovi disgustose.
Nei corti precedenti aveva denunciato gli allevamenti intensivi, qui ha voluto inventarne un ambiente che non esiste così da poter parlare delle strutture di potere. Parlando dei movimenti camera dice che sono basati sulla motion capture e che voleva farli in un modo che il cortometraggio apparisse misterioso.
Sinceramente, un corto che va oltre le intenzioni del proprio autore.
Il quinto corto del gruppo è stato “Beautiful Men” di Nicolas Keppens realizzato in stop motion per il Belgio.
Il corto inizia al banco accettazione di una clinica per il trapianto di capelli di Istanbul, dove un uomo sui quaranta scopre di aver sbagliato il numero di prenotazioni lasciando fuori i suoi due fratelli. L’uomo torna in albergo rattristato e non sapendo come dirglielo. Mentre il fratello più grande è comprensivo il secondo non la prende bene. Il trio sembra dividersi sempre di più, ma una fitta nebbia che attanaglia la città li fa smarrire e rende possibile la scoperta reciproca dei loro veri sentimenti e fragilità. In seguito, un incendio nell’albergo li mette in una situazione di pericolo dove devono tornare a capirsi.
Un cortometraggio sul rapporto tra fratelli dove si innestano discorsi sull’insicurezza personale, dovuta sia all’aspetto esteriore che alla crisi di mezz’età. I tre fratelli hanno caratteri molto diversi e affrontano la vita ognuno a suo modo. Tra i tre il fratello mediano è il più irascibile, ma mostra anche di essere quello che sta passando una crisi maggiore degli altri, che comprende un matrimonio in crisi e ha come difesa l’isolarsi dagli altri due per non doverne parlare con loro. Alla fine del corto forse è l’unico a capire che avere i capelli non risolverà i suoi problemi. La scena finale dove lasciano la città è tecnicamente impressionante.
Come curiosità divertente; aggiungo che in sala, dopo la proiezione, quando si è fatto il nome dell’autore e tutti ci siamo girati per guardare chi fosse, accanto a lui era seduto qualcuno che indossava un mascherone del fratello maggiore.
L’autore racconta che nella sua famiglia tutti sono pelati e anche lui ha iniziato a perderli. L’idea per il corto è nata una volta che era a Istanbul per lavoro, lì vide una clinica per il trapianto di capelli e trovò tenero il gruppo di calvi insicuri che aspettavano seduti al bar. È il suo primo film in Stop Motion, ha scelto questa tecnica perché ha pensato che sarebbe stato meglio se ci fossero state delle vere teste e che la tecnica potesse rendere meglio la sensazione di sentirsi soli.
Anche se sono insieme i tre fratelli sono lontani e non sanno parlare tra di loro, anche quando sono nella stesso banco di nebbia. In questo corto la nebbia simboleggia la paura del fratello per l’altro e la difficoltà del prende decisioni. È la nebbia che spinge tutta la storia.
Dal pubblico dicono che nel corto ci sia un uso molto belga del dark humor. L’autore commenta che probabilmente è perché loro belgi sono timidi e non diretti, più imbarazzati degli altri popoli vicini.
Gli fanno una domanda sullo spazio vuoto che si vede alla fine, quando si rivedono tutti i posti dove sono stati. Il proposito era fare un paragone con il quadro di Bruegel sulla caduta di Icaro, famoso per rendere l’evento del titolo solo un particolare in mezzo a un quadro pieno di vicende in corso. Voleva significare che la vita continua nonostante tutto e che, anche con il Covid in espansione, la gente continuava a andare a Istanbul per farsi i trapianti di capelli.
Il sesto e ultimo corto del gruppo è stato “Abzi Shiva” di Sadegh Asadi realizzato in tecnica mista di pittura su vetro e stop motion per l’Iran.
Il cortometraggio ha scene divise in varie parti dello schermo per raccontare la storia di una donna che viene tenuta chiusa in una stanza da un uomo mascherato. Ogni volta che lei prova sofferenza produce dei pesci, che vengono presi dal suo corpo, puliti, caricati in un camion e venduti procurando soldi che l’uomo mascherato prende. Le sofferenze della donna le fanno produrre ogni tipo di creatura marina, ma a un certo punto quello che produce è una figlia. La donna dovrà sopportare crudeltà e maltrattamenti maggiori prima di riuscire a liberarsi e ritrovarla.
Un cortometraggio angosciante dove la figura della protagonista viene scomposta in pezzi e passa dall’essere un’umana a essere una sirena continuamente. I colori dominanti sono rosso, nero e bianco, rendendo ancora più forte la sensazione di violenza. Tecnicamente impressionante e dal chiaro significato di condanna.
Viene chiesto all’autrice se il corto abbia un profondo messaggio femminista. Risponde che quando fa film d’animazione parte dalla rielaborazione di quadri che ha realizzato, anche anni prima, e che lei non pensa al messaggio quando dipinge. Il quadro da cui è partito il corto è del 2012; ha iniziato riproducendolo, poi ha improvvisato senza storyboard. Con l’intenzione di creare lo stesso universo in animazione e vedere cosa succedeva. Procedendo in questo modo ha scoperto la storia mentre la stava facendo. Per realizzarlo ha provato tanti stili diversi e scoperto una particolare carta rossa su cui poter dipingere a olio.
Le chiedono che differenza ci sia tra pittura e animazione, la sua risposta è che la pittura è più facile perché ha due dimensioni, mentre l’animazione è più complicata.
Per spiegare il modo in cui è composta l’immagine nel corto parla della rappresentazione di sole e luna nello stesso paesaggio, molto usata nella tradizione Iraniana, e di come lei fosse interessata a renderla cinematograficamente.
Il film è universale e non particolarmente legato all’Iran. Chi lo vede in ogni parte del mondo può interpretarlo come preferisce.
Per la realizzazione dei corti ha un gruppo affiatato di collaboratori che l’aiuta e capisce cosa vuole fare.
Non sa se il suo corto potrebbe essere proiettato in Iran e sembra riluttante a parlarne.
Questi erano i corti del quarto gruppo. Come sempre, un interessante insieme di tecniche differenti provenienti da ogni parte del mondo. Sarebbe bello se fosse più facile poterli vedere e che non fossero solo visibili nei festival.