Malgrado si fosse ripromesso di non scrivere mai più recensioni di prodotti audiovisivi – di competenti e circostanziate ve ne sono in numero sufficiente – e dubitando di riuscire a garantire quella effettiva oggettività senza la quale la critica diventa mero opinionismo, il vostro affezionato Gattastro non ha infine resistito al narcisistico piacere di esternare ‘spassionatamente’ alcune proprie – e dunque affatto opinabili e financo detestabili – considerazioni riguardo ad alcune pellicole in animazione di prossima o recentissima uscita.
La pseudo-rubrica che la immeritata benevolenza del “Grand Monsieur” di AfNews mi ha concesso di architettare, prende spunto da una – quella sì – memorabile striscia di “Calvin & Hobbes” in cui il seienne protagonista avvia una, a suo parere necessaria, attività di ‘volontariato sociale’ per elargire – appunto – “pareri spassionati” a qualunque malcapitato gli capiti a tiro, ovviamente spinto dall’anelito di rendere il prossimo suo un individuo migliore e, con esso, il bistrattato ecosistema cui tocca l’onere di ospitarci tutti. Il fato avverso disporrà che la prima beneficiaria del suo proselitismo sia la cinica e manesca Susi, che lungi dal mostrargli gratitudine per la sua solerzia – come troppo spesso usa fare il volgo quando ha a che fare con probi mecenati – porrà fine brutalmente alla sua ecumenica attività. Spinto da analogo zelo ‘calvinista’, e invocando l’indulgenza di quanti avranno la pazienza di leggere questi miei, fortunatemente brevi, sproloqui, auspico che tale spazio possa avere una longevità superiore, arrivando almeno al terzo appuntamento (anche perché dopo potrei essere io a stancarmi o ad esaurire gli argomenti, complice l’età e l’indole oziosa).
Avendo avuto la fortuna e il privilegio (grazie, Lucky Red!) di poter assistere in anteprima all’ultima – ora sappiamo, solo in ordine cronologico – fatica di Hayao Miyazaki, lo scrivente non poteva certo esimersi – alla vigilia della sua uscita nelle sale italiane – di inaugurare “Pareri spassionati” proprio con il lungometraggio forse più atteso dell’ultima stagione: “Kimi-tachi wa dō ikiru ka“, ovvero “Il ragazzo e l’airone“.
Doverosa premessa iniziale: su ideazione, produzione e sottotesti è stato già scritto e detto in quantità sufficiente, e il senso di questo spazio non è ripetere (male) il già sentito (meglio); come utilissimo strumento il Gatto si limita dunque a proporre questa analisi approfondita su tutti o quasi i riferimenti reperibili nel film, dai più espliciti a quelli ‘subliminali”. Quel che ci si prefigge con queste poche righe è anzitutto distillare dalla visione dell’opera alcune suggestioni, minimamente ragionate in seguito, che potrebbero senz’altro venire spazzate via da argomentazioni più oggettive e circostanziate: “pareri spassionati”, appunto, liberi per una volta dal vincolo dell’obiettività ma forse proprio per questo capaci di aprire finestre su scenari diversi da quelli abitualmente in primo piano.
Rieccomi, dunque – rieccoci – nel buio della sala: soltanto noi e il film.
Tralasciando la ‘falsa partenza’ con le immagini senza audio per problema tecnico – che peraltro non mancava di un suo fascino, e ben si sarebbe agganciato al prosieguo del mio discorso – i primi 15′-20′ de “Il ragazzo e l’airone” mi hanno colpito come da tempo non accadeva, anche nel caso di un film targato Ghibli.
L’infuocata – è il caso di dirlo – ouverture propiziatoria, come nei migliori romanzi ‘per la gioventù‘ (sic!), pare costituire soprattutto il pretesto per introdurre un contesto in cui il confine tra mondo ‘umano’ e ‘altro’ appare sottile ed incerto, come ne “La città incantata‘ e “Il mio vicino Totoro“, peraltro citati esplicitamente nel film. Ma, in questo caso, si scorge un riferimento mai in lui così esplicito alle atmosfere più arcaiche e inquietanti – azzarderei ‘kafkiane’, almeno in questo caso – dello scrittore Kenji Miyazawa. Per alcuni, una delle interpretazioni di questo film consisterebbe nell’essere una sorta di “lettera a Isao Takahata“, e in quest’ottica, a parte certe arbitrarie individuazioni in questo o quel personaggio, un concreto fils rouge potrebbe essere proprio l’autore e agronomo di Hanamaki, dato che Paku-San lo ‘evocò’ più o meno direttamente in ogni sua opera. Ma qui, tale riferimento viene declinato in una maniera totalmente nuova, almeno per Miyazaki, che procede accumulando indizi, sottintesi, aspettative che concorrono a creare un senso di tensione altissimo, utilizzando i momenti di sospensione non in senso meramente contemplativo e/o riflessivo, ma quali catalizzatori dell’indicibile, del perturbante, riflettenti quell’orrore umano che trascende l’esperienza individuale per diventare espressione della Paura primordiale e immaginifica che tutti ci accomuna in quanto specie.
Non è l’evidente – e, diciamolo, un po’ abusato – biografismo che riconduce all’elaborazione del lutto, a ‘disturbare”, quanto il comportamento – esplicito ma soprattutto sottinteso – della comunità di ‘adulti’ in cui il giovane Mahito viene accolto, giungendo nella tenuta di campagna della famiglia materna: tutto appare velatamente minaccioso, inquietante e ‘perverso’…
I motivi e il tessuto del kimono della zia-matrigna Natsuko paiono ipnoticamente mutarsi in spire di serpente mentre sul risciò avvinghia con ardore eccessivo la mano del nipote costringendolo a posarla sul suo ventre gravido, in una sequenza il cui potenziale incestuoso non parrebbe inconsapevole, almeno analizzando l’utilizzo sinuoso e funzionale dell’animazione e l’estremo disagio con cui Mahito subisce attenzioni che appaiono – a lui e a chi guarda – decisamente ‘inappropriate’. L’atteggiamento stesso del padre, la sua ottusa ilarità e l’ostentato vitalismo, concorrono a creare un senso di disagio: come nel migliore David Lynch – e nel miglior Kafka – percepiamo nitidamente che “qualcosa di sinistro sta per accadere“.
Nella maestosa magione avita (descritta con una ricchezza di dettagli e particolari che sembrano avere ciascuno uno scopo subliminale ben preciso), in cui la Natura circostante sconfina abitualmente come l’airone cinerino scorrazzante impunito nei paraggi. La stessa Natsuko, novella Artemide Arcièra o, meglio, Lady Eboshi – cui in alcune scene si rifa palesemente – (o esserne prigioniera) su una comunità composta solo da persone anziane laide e deformi, che ci appaiono ammassate le une sulle altre alla stregua di un nido di serpenti, simili alle grottesche Teste saltellanti al servizio della strega Yubaba ne “La città incantata“. In prevalenza di sesso femminile, questa servitù che infesta apparentemente ogni angolo della villa, sembra devota anzitutto a saziare una fame onnivora e perenne: il modo in cui si gettano sulle vettovaglie portate da Mahito, al contempo fissandolo con bramosia, suscita un moto di repulsione, ma risultano angoscianti come ne “L’inquilino” di Polanski anche le silenziose presenze maschili (?) che relegate negli anfratti vegliano ombre indefinite sepolte nei tatami. Un evidente rimando ai lebbrosi di Tatara Ba in “Principessa Mononoke“, e alcune delle scene più liriche del film citano inequivocabilmentre questo autentico capolavoro, tema musicale compreso, ma soprattutto al morbo ‘corrosivo’ che aleggia da sempre nell’opera di Miyazaki. Si ha l’impressione che il nuovo arrivato fosse atteso per placare l’appetito animalesco di quelle creature, che tutti desiderino vampirizzarne la giovinezza, merce sempre più rara in un Paese, il Giappone, che all’epoca in cui la storia è situata, il 1943, iniziava a intuire le tenebre della ‘selva oscura’ in cui si era cacciato, vittima dell’incantesimo di un’aristocrazia autonominatasi ‘divina’ e che già ne stava sacrificando il futuro sull’altare di un nazionalismo cieco e autodistruttivo.
Una generazione di vecchi che si nutriva della nuova per sopravvivere: mostri dal ventre avvizzito e sterile quanto insaziabile, implacabilmente avvinghiata all’esistenza, come un’edera velenosa e infestante.
Forse è proprio questo – più ancora della poetica quanto didascalica sequenza della caccia dei pellicani ai piccoli Warawara che cercano di ‘venire al mondo‘ – il riferimento più riuscito alla tragedia della Guerra, in cui le principali vittime furono e restano i bambini, come vividamente testimoniato nel terribile e magnifico “Una tomba per le lucciole” di Isao Takahata (altra missiva all’amico?), la cui crudezza pare occhieggiare soprattutto in questa parte del film, in un presagio di morte e sventura che opprime ogni singola immagine – peraltro sontuosa e di abbagliante bellezza proprio perchè satura di tremenda carica semantica: anche la grave ferita che si autoinfligge il protagonista può così essere interpretata quale gesto liberatorio necessario a spezzare una tensione fattasi ormai insostenibile .
Ecco.
Per una ventina di minuti – più o meno fino a quando l’elemento fantastico si manifesta esplicitamente con la rivelazione del mondo Altro – il cinema di Hayao Miyazaki mi è parso davvero aver intrapreso una via nuova, capace di attingere a figure basilari per il suo percorso umano ed artistico per usarle come linfa per potersene staccare e condurre la potenza immaginifica di cui l’artista è detentore su livelli narrativi ed espressivi mai sperimentati prima d’ora… forse eccessivi, per un autore che ha sempre tenuto ben presente di lavorare anzitutto per un’azienda e per un pubblico.
Ecco.
Forse questa consapevolezza finisce per prendere il sopravvento, e il film – come nell’epilogo di “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll, quando tutto collassa nel momento in cui Alice diventa Regina e ‘capisce’ finalmente la logica illogica del Paese delle Meraviglie e, con essa, forse anche qualcosa di inaccettabile per il suo inconscio – da quel momento sembra sbandare, sfaldarsi, accartocciarsi su cliché, stilemi e situazioni già viste… come se entrasse in azione una sorta di pilota automatico collegato a un archivio zeppo di immagini meravigliose ma sostanzialmente fini a sé stesse… da qui si ha l’impressione di assistere a un campionario di scene e personaggi tratti dalla filmografia dell’Autore, e anche il montaggio pare andare per conto proprio, saltando di qua e di là come se la mano non reggesse più saldamente il timone ma il pilota volesse soltanto, in qualunque modo, ricondurre la barca in porto.
“Yes! The danger must be growing
For the rowers keep on rowing
And they’re certainly not showing
Any signs that they are slowing!”
A questo punto mi è venuto in mente che praticamente in ogni film di Hayao Miyazaki a un certo punto una sorta di melassa viscida e nichilista irrompe a travolgere il mondo (in qualche modo evocata da esso), ma in questo caso – e al netto di ogni legittima interpretazione legata al futuro del Ghibli o alla longevità stessa dell’Autore – l’impressione è che davvero il disfacimento generale sia anzitutto una necessità impellente di chiudere in modo tradizionale un discorso fattosi troppo ‘pericoloso’.
Nel rutilante fuggi fuggi finale nulla ha più davvero importanza: le ‘inquietanti presenze’ tardone si mutano in benigne e salvifiche alleate, ogni suggestione potenzialmente angosciante e scabrosa viene ricondotte a più rassicuranti legami familiari in cui mamme ‘naturali’ e ‘acquisite’ vanno a braccetto ansiose solo di passarsi il testimone di un figlio che ha imparato ad amarle entrambe senza riserve, mentre tutto intorno il mondo che le ospitava – alquanto simile al castello di Howl – implode su sé stesso, forse più per l’incoerenza generale che per la scomparsa del suo presunto garante. Che il regista abbia fretta di chiudere, pare confermarlo anche l’ultimissima sequenza che giunge improvvisa, secca, tranchante, analoga alle ultime righe del fenogliano “Il partigiano Johnny“: ma se in quest’ultimo l’incompiutezza trova un suo mirabile senso storico e letterario, qui appare come una sorta di fuga, di chiusura a doppia mandata di porte che sarà meglio non riaprire mai più.
Restano tante immagini splendide – anche se, stringi stringi, si ritorna sempre all’Iblard disegnato da Naohisa Inoue – e momenti di alto cinema visivo, come sempre in Miyazaki (vale sempre la pena, comunque e dovunque), eppure eppure… il rimpianto di ciò che avrebbero potuto far schiudere quei 20′ minuti iniziali aleggia, eccome se aleggia, mentre scorrono i titoli di coda sulle note della canzone “Spinning Globe” di Kenshi Yonezu e tu ti stai ancora interrogando sul senso reale di quest’opera…
Poi, alzi gli occhi, e in quel momento leggi l’ultima strofa:
[Can’t hold myself from picturing, like the spinning globe]
In senso stretto, “Picturing” significherebbe ‘immaginare’, ‘dipingere’ o ‘ritrarre’, ‘figurarsi’, ma per una volta la traduzione italiana penso abbia colto nel segno:
Non riesco a trattenermi dal DISEGNARE, come il Globo che gira.
Eccolo, il senso più profondo.
Almeno, secondo me.
E’ una cosa bella? Oppure fa malinconia perché “great is the art of beginning, but greater is the art of ending”?
Entrambe le cose, direi.
Proprio come la vita.
E ciascuno ha il diritto di celebrarla nel modo che preferisce: anche stringendo in mano una matita al proprio tavolo di lavoro, ogni singolo giorno, fino all’ultimo che gli viene concesso in Terra.
Solo, sarebbe bello che dopo aver regalato sorrisi ed emozioni a milioni di persone, l’ultimo lo riservasse per sé stesso: glielo auguro di cuore.
Un’altra cosa che mi auguro è che lo Studio Ghibli realizzi davvero un film tratto da “Kimi-tachi wa dō ikiru ka” (in italiano, “E voi come vivrete?”), romanzo del 1937 di Genzaburō Yoshino espressamente concepito per contrastare l’indottrinamento imperialista e fascistoide della gioventù nipponica pur nella consapevolezza che il viaggio nella Selva Oscura avrebbe condotto alle estremo conseguenze, che viene citato esplicitamente nel film di Miyazaki e il cui spirito tutto sommato aleggia sull’opera pur mescolato ad altre istanze tipiche dell’autore.
Curiosamente simile, per struttura epistolare e aneddotica esemplare, al “Cuore” di Edmondo De Amicis, questo romanzo se ne distacca per l’afflato positivista e illuministico, per l’invito costante al ragionamento quale viatico alla comprensione di sé e del proprio inscindibile legame con il resto del mondo, oltre ogni divisione di ceto, nazionalità e ideologia, in nome della comune appartenenza a un genere umano che solo attraverso la nobilitazione di sé tramite l’impegno e la coerenza civili ed etici e il rispetto delle prerogative altrui, può raggiungere il pieno potenziale. E’ un libro che in questi cupi tempi di recrudescenze “sovraniste” appare attualissimo, ricco di descrizioni d’epoca di un Giappone forse ormai scomparso – lessico e terminologie comprese – un affresco simile a “Chie la monella” in cui a prevalere è l’intento pedagogico-illuministico, ma che non manca di sprazzi lirici e immaginifici simili ad haiku: credo che sarebbe stato perfetto per Isao Takahata.
E – azzardiamo – potrebbe esserlo per valorizzare (finalmente!) un allievo di Takahata, quel Goro cui il peso del cognome ha condizionato radicalmente la carriera, spinta cocciutamente su progetti fantasy avulsi dalle sue corde e sensibilità, e capace però di regalare un gioiellino come “La collina dei papaveri“, seppur in stretta sinergia con l’ingombrante genitore. Secondo quanto affermato di recente in un’intervista, Goro Miyazaki non sarebbe intenzionato a proseguire la propria carriera di regista, almeno sul lungo periodo, ma forse un progetto del genere – tra l’altro simbolicamente legato a quello di Hayao, ma non in modo dipendente – potrebbe perlomeno costituire per lui un canto del cigno degno e appagante.
Per quanto riguarda il già annunciato prossimo ‘ultimo film’ di Miyazaki senior… più che un seguito di “Nausicaa“, che personalmente ritengo perfetto come manga e tale lascerei senza ulteriori manipolazioni, e approfittando del più che probabile, visto il successo del precedente, “silenzio promozionale” che ci accompagnerà fino alla prima, oso concedermi il piacere privato di sognare le nuove avventure di un certo maiale aviatore in fuga dall’Italia fascista per dare il suo contributo nella Guerra civile spagnola, mentre il suo aereo sorvola Barcellona e scorge, là in basso, un romantico marinaio giramondo appena sbarcato con la sua sacca da viaggio.
I due si scambiano un cenno d’intesa…
Titoli di testa.
Musica – ça va sans dire – di Joe Hisaishi.