afNews 19 Maggio 2022 15:00

La bellezza della Masterclass di Michael Dudok De Wit a Padova.

Mercoledì 11 e giovedì 12 maggio l’università di Padova ha ospitato due eventi che devono essere riportati. Il primo giorno si è svolta la presentazione del libro Michael Dudok De Wit. A Life in Animation” scritto da Andrijana Ružić sull’opera del grande artista e regista olandese.

L’artista stesso è stato presente all’evento e giovedì 12 ha tenuto una masterclass nell’università, inserita nel contesto del corso di History of Animation . Un corso unico nel suo genere in iItalia tenuto dall’illuminato docente Marco Bellano. Il cui amore per l’animazione è grande e provato da anni di dedizione, eventi organizzati e centinaia di pagine scritte sull’argomento. Introducevano la lezione Andrijana Ružić e Marco Bellano. Il soggetto è stato la spiegazione del modo che Micheal Dudok De Wit ha di affrontare il processo creativo cinematografico.

Senza perdere tempo, l’artista ha iniziato a parlare. Calmo, intensamente e con saggezza zen di cosa sia per lui fare cinema d’animazione.

Il primo argomento affrontato è stata l’importanza di essere in grado di raccontare il proprio processo creativo in modo chiaro. Per apprenderlo ci sono dei corsi apposta dove viene insegnato come parlare ai produttori, per riuscire a esprimere le proprie idee nel modo più completo possibile. Sono corsi importanti da seguire che aiutano molto, anche se stessi, a capire meglio cosa si vuole fare.

Lavorare nell’animazione dipende dalla creatività e dalla capacità di riuscirsi a comunicare tra i vari settori coinvolti nella produzione. L’animazione, più di ogni altra forma d’arte, ha bisogno del lavoro di tanti talenti differenti per essere realizzata: persone che sanno capire la recitazione, che sanno disegnare,che sanno come esprimere le emozioni tramite disegni, che sanno come muovere i personaggi nello spazio e come raccontare storie. Molti animatori non sono storyteller ne compositori, ma tutti devono saper lavorare insieme e capire i vari linguaggi.

Altra cosa che non vien MAI detta abbastanza è l’importanza di capire quando sia il momento di fermarsi.

Quando si realizza una scena molti si fanno prendere dalla sensazione che non sia mai abbastanza, che possa dire di più e finiscono col lavorarci sopra fino a rovinarla. Allora, si chiede, Come possiamo sapere? La risposta è che serva l’aiuto degli altri. Si chiede se la cosa fatta dia loro la sensazione che vada bene e dalla discussione si capisce se si deve continuare o no. Confrontarsi con gli altri aiuta anche a notare involontari errori che non vedi, ma che il pubblico vedrà subito.

Dudok de Wit provoca il pubblico quando dice che piuttosto che chiedere come fa lui a sentire quando una cosa va bene sarebbe più interessante scoprire come noi possiamo sentire che quella cose va bene. Per farlo spiega cosa fa la creatività al nostro corpo.

Altro aspetto su cui si ferma molto è che ci sono più metodi per strutturare un racconto. Uno è un processo di scelta razionale focalizzato sulla continuità di una narrazione lineare. In questa capire che cosa va e cosa no è chiaro come dire si o no, vero o falso, bianco o nero. Molto efficiente e intelligente. L’altra via, artistica, poggia sul racconto circolare e consiste nel vedere un soggetto da differenti prospettive, avere non una ma molte risposte alle domande e comprendere ogni possibilità di sviluppo, mantenendo una mente aperta e amando la libertà. Un lavoro molto più duro del precedente, ma pensa che il sistema artistico sia più apprezzato.

Un esempio di questo è come sentiamo il passare del tempo: a volte molto veloce, altre lento. C’è chi racconta storie usando il tempo in un’unica direzione, senza tornare indietro o saltare in avanti, appunto in modo lineare. Mentre altri usano il cerchio del tempo. Un concetto che parte dalle stagioni, ma in realtà si rifà alle emozioni (preoccupazioni dal passato, speranze per il futuro ecc). Per secoli i nostri antenati hanno vissuto seguendo i circoli del tempo, solo di recente abbiamo fissato le cose con le date.

De Wit mette anche in guardia dai rischi di un lavoro troppo intuitivo perché potrebbe risultare incomprensibile, mentre uno troppo razionale sarà privo delle qualità artistiche che attraggono.

Perché si concentra a parla di questi due metodi? Glielo ha insegnato un regista durante uno dei corsi che ha seguito, gli spiegò che le due differenti via di sviluppare la storia sono dovute ai due modi diversi di processare degli emisferi cerebrali. Lui era confuso sul come raccontare le storie e questa spiegazione lo aiutò molto, facendogli capire che questi due modi di vedere col tempo si possono imparare non solo a usare separatamente, ma anche a riuscire a fonderli.

Lavorare nell’animazione è molto complesso e richiede una cura costante in ogni particolare che purtroppo non impari a scuola, ma che affini con anni e anni di lavoro e esperienza.

Passando allo stile artistico mostra alcune foto di oggetti o opere d’arte che attirano la sua curiosità, soffermandosi molto sul “Quadro nero su fondo bianco” di Kazimir Malevich. L’opera rivoluzionaria che mostra un contrasto chiaro e immediato da percepire, la pura bellezza dell’astratto. Lo paragona a scene di film in bianco e nero dove persone vestite di nero camminavano su montagne innevate, immagini potenti e poetiche che lui ha ripreso nella sua cinematografia. L’arte per Michael Dudot De Wit non ha bisogno di essere complicata, ma di essere semplice e ridotta all’essenziale.

La parola per capire di più la creatività è Sensibilità”. Nel dirlo non è melodrammatico, tutti gli artisti devono essere sensibili. L’empatia è una forma di sensibilità e la bellezza è un’incredibile forma di sensibilità. Per lui la sensibilità artistica migliore è quella che ti fa sentire rilassato.

La sua ispirazione artistica maggiore è stata una specie di striscia a fumetti cinese fatta nel XII° secolo. Dieci vignette buddiste in cui si illustravano semplici azioni spirituali da compiere ogni giorno. La prima volta che la vide fu sconvolto da quanto quelle immagini lo coinvolgessero.

Da queste immagini scoprì la pittura buddista e il suo uso dello spazio vuoto.

Una semplicità bella che lo ispirò e che elaborò nel suo secondo cortometraggio,The Monk and the Fish”.

Altra cosa importante per lui è il senso di meraviglia infantile; per le ombre e per tutto. Dalle ombre e dalle incisioni tradizionali olandesi di paesaggi venne ispirato “Father and Daughter”.

In sintesi la storia è molto semplice e usa molto il paesaggio e le ombre. Lui pensò da subito che sarebbe stato un grande film, magari non divertente, ma bello. Fece molti studi e disegni dei personaggi, al tratto o usando il carboncino. Il pastello dava il nero netto che voleva. Una tecnica che ha continuato a usare nel disegnare i paesaggi anche dei film successivi.

Il quarto cortometraggio fu The Aroma of Tea”. Molto intuitivo e fatto di linee realizzate usando il pennello giapponese. Per sentire e prendere la mano su questa tecnica, che definisce gloriosa, passò giorni a tracciare linee e cerchi sulla carta.

Mostra alcune scene da “La tartaruga rossa”. all’inizio il protagonista non sa come fare a vivere nella natura ed è stupito da ciò che lo circonda. La foresta di bambù era la bellezza calma della natura. Dopo lo tsunami è un simbolo della distruzione sottolineata dall’assenza di colori. Ma anche nella distruzione c’era una gran cura nella composizione, era un caos musicale.

Questo per dire che gli artisti devono parlare agli artisti, ma devono anche parlare al pubblico. di solito la musica può fare questo facilmente, per farlo in animazione devi andare più in profondità e questo per lui significa scegliere il silenzio e la bellezza.

Per produrre questo film ha avuto un incontro col produttore giapponese e gli raccontò la storia. Isao Takahata ne vide subito le potenzialità e lo spronò dandogli dei consigli.

Lo stile è ispirato da un libro che amava da bambino, da Tintin e dagli incisori e illustratori giapponesi dell’ottocento. Ma la più grande ispirazione è stata la documentazione decennale sulla natura acquisita tramite riviste e documentari.

Tra le domande che gli sono state fatte, sia dal pubblico presente in aula che da quello collegato via Skype, una chiedeva di approfondire il suo rapporto con i fumetti. Guido Buzzelli e Hergè furono importanti e negli anno ‘80 la rivista “Heavy Metal” gli aprì un mondo di autori meravigliosi, tanto che a un certo punto della sua vita lui voleva fare fumetti, ma poi andò a un festival di Annecy. Lì vide che nell’animazione potevano essere combinate disegni, storia e musica e la amò subito. Complice anche un cortometraggio di Jurij Norštejn e la sua poesia.

Altra domanda interessante è stata sull’uso della musica in “Father and Daughter”. Prima di iniziare tutto ha studiato la composizione, lo stile e la musica. Nel suo processo creativo la musica è la sua vera musa. Per lui è un grandissimo aiuto non solo per raccontare la storia, ma per capire come strutturarla e che tempi darele. Ma avverte che bisogna stare molto attenti che la musica e gli effetti sonori non si sovrappongano.

Dopo queste domande la lezione giunse al termine. L’artista aveva parlato per più di tre ore senza quasi interruzioni andando ben oltre l’orario previsto, ma ogni persona nel pubblico era felice e avrebbe continuato volentieri a sentirlo ancora per molto, se non fosse ormai arrivata l’orario di chiusura dell’università.

Grazie di tutto, Michael Dudok De Wit.

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