22 Gennaio 2019 19:04

Cinema: Dove bisogna stare, un film da vedere

È straniante vedere il clip di Salvini che, andando a fare la sua incursione mediatica prima dello sgombero forzato dei migranti della stazione di Como, afferma, mentre si trova in mezzo ai letti improvvisati su cartoni: «Io qui vedo solo giovanotti robusti che indossano scarpe Nike e maneggiano Iphone senza fare niente tutto il giorno» Straniante perché appena qualche scena prima una volontaria del centro di accoglienza, raccontando la storia di uno di quei giovanotti, migrante, ha parlato di torture subite e visibili sulla sua pelle, d’un infinito andare da uno sportello a un altro senza riuscire a ottenere quello di cui si ha bisogno, d’una storia di pestaggio – ad opera di ragazzi italiani – e, infine, dell’impossibilità di avere un qualsiasi sbocco se non la fuga e il disperato tentativo di oltrepassare la frontiera italiana per andarsene ben lontani dal nostro paese.

Sto parlando del bellissimo film-documentario di Daniele Gaglianone intitolato “Dove bisogna stare”, proiettato in questi giorni al cinema Massimo del Museo del Cinema di Torino, unica sala in tutta la città che l’ha voluto – e ci sarebbe da fare qualche interessante riflessione su questo fatto – realizzando, tra l’altro sold-out in tutti gli spettacoli. L’ultima occasione è il 23 Gennaio alle 18,30.

Il film-documentario parla di migranti, anzi di persone che si sono messe in gioco con questo problema e invece di stare a guardare, o – peggio – di brontolare o di protestare, hanno deciso di dedicare un pezzo della propria vita per trovare una soluzione o quanto meno provarci. Lo sguardo di Gaglianone non è celebrativo, non racconta la storia di eroi, non minimizza il problema, non vuole stare retoricamente dalla parte di questi ragazzi in difficoltà, ma vuole semplicemente suggerire l’idea che qualunque persona normale, che non sia cioè contagiata dalla paranoia instillata ad arte per scopi non sempre limpidi di propaganda politica, aprendo gli occhi sulla realtà non può non intervenire, fare qualcosa, compiere un gesto di accoglienza. «Sono andata in pensione, e mi sono detta: che cosa devo fare? Viaggi? Andare al centro anziani? Neanche per sogno: io voglio essere dove c’è la vita e la vita è qua» dice la più anziana delle tre protagoniste indicando le baracche in mezzo al bosco di quelli che arrivano per tentare di passare il confine.

Significativo il fatto che siano donne le quattro figure di volontariato intorno alle quali si snoda il filo della narrazione, un racconto frammentario come frammentata è la vita di chi fugge dal proprio paese, senza verità prerequisite e solo con un dolente, struggente senso di un’umanità che oggi, nell’Italia meschina e rancorosa di questa notte della repubblica sembra essere tacitata e messa sotto con cinismo, aggressività e insulti. Eppure il messaggio è chiaro: finché c’è anche solo una di quelle figure c’è la speranza che la normalità della solidarietà si possa ancora toccare con mano.

Sala piena ma con una sola nota dolente: mancavano quasi del tutto i millennial. Speriamo di non dover ripetere la Resistenza.

[Alberto Arato]