9 Luglio 2018 09:00

“Ma chi è il Grande Giullare”? Una flanerie semiseria tra ricordi (e imprese) di Sergio Crivellaro

Tra i miei ricordi più vividi d’infanzia, quando ancora con genitori e sorella vivevamo nella nostra prima casa di via Cibrario 97 a Torino, ci sono senz’altro i pomeriggi solitari passati chiuso nello sgabuzzino a leggere beato il mitico “Corrierino” (quello vero) e, in special modo, un fumetto che era riuscito ad appassionarmi anche più della pur amatissima “Stefi” di Grazia Nidasio. Era una serie a puntate, simile a un feuilleton che si interrompeva sempre sul più bello dando appuntamento alla puntata successiva – ma non sempre la settimana dopo si presentava all’appuntamento, con mia cocente delusione – in cui un biondo ragazzino, serio e responsabile ma prontissimo a gettarsi nell’avventura, insieme a un burbero quanto sarcastico omone, dalla lunga barba e le orecchie a punta, bisticciavano tra loro tutto il tempo salvo poi coalizzarsi contro i nemici di turno. Questi ultimi, a loro volta, ostentavano la propria cattiveria più a parole che nei fatti, e spesso venivano sbaragliati facilmente a suon di schiaffoni.

Tale dettaglio, nel mio immaginario influenzato da parecchia televisione, trasformava i due protagonisti in eponimi di Bud Spencer e Terence Hill, anche per i dialoghi laconici e scanzonati che rendevano le storie un riuscito mix di azione e ironia. Ma non solo: abituato a fruire di supereroi e robottoni solo grazie ai comics americani e alle prime serie tv nipponiche giunte in Italia, lì ritrovavo riunite tutte quelle suggestioni, condite con uno spirito e un’inventiva che percepivo, con acerba sensibilità critica, strettamente affini alla mia cultura e perfino alla mia quotidianità. Quando poi a loro si unì la sorella del ragazzino, una giovinetta saputella dai lunghi capelli rossi, in salopette e mascherina sul viso, la quale da subito prese a rubare la scena, per astuzia e senso dell’umorismo, ai due riluttanti “eroi”, ecco che la mia prima vera cotta emotiva era bella e servita.

A degno coronamento del tutto, Piccolo Zeus e i suoi compagni (amici e nemici) si riunivano a brindare allo “scampato pericolo”, un po’ come nel banchetto collettivo che chiudeva immancabilmente le avventure di altri due miei favoriti, i “gallici” Asterix e Obelix.

Sto parlando, per chi non l’avesse ancora capito, di “Piccolo Zeus”, fumetto pubblicato sul Corriere dei Piccoli tra il 1978 e il 1980, pur con qualche interruzione editoriale. I protagonisti erano, appunto, Piccolo Zeus, figlio del Grande Zeus (burbero e vendicativo signore dell’Olimpo) che difendeva la Terra dal cattivo umore del genitore, coadiuvato in ciò, dopo un’iniziale scaramuccia, dal possente Titano, tendenzialmente egocentrico e menefreghista ma capace di notevole altruismo quando davvero contava. Entrambi, come detto, dalla seconda serie in poi si ritrovavano sotto il costante “giogo” di Zeusina, pestifera quanto intelligentissima sorella minore del protagonista, un peperino saccente capace di irritare l’intero Olimpo senza distinzioni ma anche di risolvere la giornata quando tutto sembrava perduto (“e mi fa una rabbia… ma una rabbia…” – borbottava il povero Titano, ed io con lui, entrambi maschietti irritati e affascinati al contempo per essere stati surclassati da una “femmina”).

Purtroppo, malgrado il successo, il fumetto non venne confermato dopo la terza serie ed io, come molti altri, restai a interrogarmi su una domanda cui non era stata data ancora un’adeguata risposta: “Ma chi è – davvero – Piccolo Zeus?”

A distanza di molti anni, il quesito continuava a tormentarmi… e infine ho deciso di andare a chiedere sollievo direttamente a colui da cui tutto ebbe inizio: il Narratore stesso. O, meglio, il Grande Giullare, che aprendo il Libro delle Stelle ne fece saltar fuori “quei due fracassoni”, e tutto ciò che ne seguì…

Qui, sulla Terra, il suo nome è Sergio Crivellaro, e per la pagnotta ha fatto lo sceneggiatore, il “dialoghista”, lo story artist e altre cosette affini; ma poi ha messo la testa a posto per dedicarsi ad attività più serie e onorevoli, quali la pesca (ma anche qui il vero gentleman sa sempre quando dire basta) e, soprattutto, la famiglia.

Come buona e sana abitudine di AfNews, e in nome di quel lontano bambino barricato in uno sgabuzzino torinese, ho dunque vinto la naturale ritrosia sabauda e ho osato disturbarlo… e Lui ha ancora una volta dischiuso un libro, zeppo di storie e memorie non meno affascinanti (e divertenti) di quelle di Piccolo Zeus, nel quale siamo stati lieti di immergerci… insieme a quanti di voi vorranno farci compagnia.

GZ: Due parole sulla tua formazione artistica e professionale e la “scelta”, se così la si può definire, di dedicarti anzitutto alla scrittura.

SC: Per quanto mi riguarda la formazione artistica e professionale è una cosa che non finisce mai, e ogni cosa vista, sentita, vissuta concorre ad arricchirla. Detto questo posso parlarti di come credo sia cominciata.

Procedendo un po’ “alla carlona” si parte negli anni ’60, in quel di Milano. Non avevo ancora vent’anni e di giorno lavoravo come operatore contabile mentre la sera, per assecondare i desideri dei miei genitori, “tentavo” di studiare ragioneria. Il tema per l’esame del primo anno era una cosa tipo: “La costanza dà sempre buoni frutti?”.

Nei temi scolastici ho sempre trovato spunti di riflessione, così dopo aver consegnato il tema con le mie considerazioni uscii da lì e andai ad iscrivermi alla Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco: mi piaceva disegnare, e ritenevo di non possedere costanza sufficiente per dedicare l’esistenza alla Ragioneria. Per essere più chiaro: le scuole professionali, sia diurne che serali, a quell’epoca spuntavano come funghi, ed io, che sono curioso per natura, le avrei frequentate tutte, ma proprio tutte, piuttosto che dedicarmi alla Ragioneria!

Mentre disegnavo nel sottosuolo del Castello Sforzesco, saltò fuori che la scuola Cova di Corso Vercelli, oltre a quelli per Ceramisti e Orologiai, stava per aprire un corso dedicato al “Cartone Animato”(!): mi precipitai a fare l’iscrizione e incontrai altri giovani nelle medesime condizioni.

Eravamo pochissimi, ma talmente entusiasti da portare anche le nostre ragazze, costringendole ad iscriversi per raggiungere un numero di adesioni sufficiente ad attivare il corso!

E’ stato lì che ho scoperto la differenza tra il “saper disegnare”, cosa che sono in grado di fare, e l’essere, effettivamente, un “disegnatore”.

Ero gomito a gomito con Libero Gozzini, che veniva dalla scuola del Castello come me, e appena lui iniziò a disegnare io misi da parte la matita e mi dedicai a inventare storie sperando che lui le “materializzasse” su carta, anche soltanto per il piacere di vederle realizzate.

Il nostro insegnante era Walter Arena: lavorava alla Gamma Film dei fratelli Gavioli, dove allora producevano caroselli straordinari per l’epoca come “Babbut, Mammut e Figliut” (celebre famiglia di cavernicoli lombardi usata per pubblicizzare materassi e pneumatici Pirelli, n.d.G.) e, siccome a mio avviso l’unico modo per imparare davvero le cose è quello di provare a farle, siamo subito partiti con l’idea di girare un film, riuscendo a portare a termine l’impresa nel giro di un paio d’anni.

Non ricordo come sia nata l’idea, ma eravamo tutti freschi di studi e così è saltato fuori il tema di Ulisse e della guerra di Troia: Gozzini disegnava una caricatura di Aiace Telamonio, ed ecco che questa riusciva a stimolarmi una quantità di gag. Arena, nel mezzo, cercava di razionalizzare questo caos e contemporaneamente tutti noi imparavamo a seguire un processo creativo logico.

Per la cronaca, il film vinse poi il premio “Dattero d’Argento” al Festival dell’Umorismo di Bordighera nel 1963.

Ho saputo in seguito che il mio prof di Lettere aveva stressato a sangue i miei vecchi compagni di classe leggendo e rileggendo loro il tema con il quale me ne ero andato, quasi sbattendo la porta, da Ragioneria. Non so perché lo facesse… forse voleva soltanto che se ne andassero anche loro!

Insomma, va da sé che – a quanto pare – era proprio “destino” che dovessi dedicarmi alla scrittura…

GZ: Descrivici brevemente il contesto lavorativo in cui hai iniziato, e come (se) lo hai visto cambiare; ti chiederei, se possibile, anche un parere sulla situazione attuale di fumetto e animazione in Italia.

SC: Ai miei tempi non c’era qualcosa che potesse definirsi un “contesto lavorativo” ben definito. Almeno, la mia impressione era che succedesse tutto un po’ così, come per caso: conoscevi una persona, magari al bar, facevi una battuta con lei, e dopo un anno arrivava un tizio che diceva che quella persona gli aveva parlato di te e per questo voleva conoscerti!

Per quanto riguarda il fumetto, ad esempio, il modo in cui conobbi Giorgio Rebuffi è già di per sé una bella storia. Mio zio fin dal tempo della guerra possedeva un negozio di giornali in via Lazzaro Palazzi, a Milano. Al suo interno c’era un grande tavolo con delle riviste e uno scatolone pieno di giornalini usati; i bambini potevano “fare a cambio” portando i loro vecchi e prenderne altri senza spendere nulla. Io, inutile dirlo, ci sguazzavo dentro regolarmente, e una volta che mio zio ha scoperto quanto mi piaceva “Cucciolo”, soprattutto per il personaggio dello sceriffo Fox, mi raccontò che anche Rebuffi, da bambino, usava stazionare lì dentro a frugare nello scatolone per delle giornate intere… così, tutto emozionato, ero andato a trovarlo e lui mi aveva regalato alcuni suoi disegni.

Alcuni anni dopo, del tutto casualmente, ci siamo reincontrati. Lui stava lavorando a “Pugacioff” e aveva un bellissimo cane lupo. Visto che io stavo inventando le gag per il cartone animato abbiamo cominciato a ragionare su delle storie di Pugacioff, che a me personalmente piaceva moltissimo. E’ stato così, con Rebuffi, che ho iniziato a scrivere autentiche sceneggiature per fumetti.

Quasi subito mi ha portato alle edizioni Alpe dove mi hanno affidato dei personaggi tipo il pirata Grappino, poi sono venuti Fix und Foxi” (Fix e Fox-Bimbo e Bimba) e altri, ma tutto sempre un po’ così, in modo apparentemente improvvisato e casuale.

La televisione in quegli anni era in bianco e nero, e aveva un solo canale, e i Beatles cantavano “Help!”: praticamente preistoria.

Sempre riguardo alla mia “formazione”, anche qui le occasioni si presentavano da sole: stavi chiacchierando con un amico animatore, che lavorava in uno studio di fianco alla Rai, e in quel momento usciva una troupe caricando la macchina per un servizio. Si facevano due chiacchiere con loro, e al momento venivi ingaggiato per portare i microfoni, si saliva tutti insieme in auto, e via. Specificando: con tanto di contratto RAI, firmato al volo! In un anno, quasi senza volerlo, ho fatto in tempo a fare l’elettricista, il fonico con tanto di registratore Nagra, ho appeso microfoni al collo di politici riuscendo anche a non sgozzarli… Se capitavi in corso Sempione di domenica poteva tranquillamente succedere che ti prelevassero di peso per poi abbandonarti nello stadio di Bergamo, dietro una porta nel corso di un Atalanta-Inter, con una Bolex 16 mm in mano e 30 metri di pellicola BN che potevi usare solamente se facevano gol. Come se uno potesse prevederli, i gol! Era un mondo così, frenetico, disponibile, versatile e fondamentalmente allegro.

Se poi capitava che durante la trasferta saltasse fuori che facevo fumetti, mi dicevano subito che il tale stava guarda caso cercando un disegnatore, io dunque passavo la dritta ai disegnatori che conoscevo, e via così. Un mondo semplice, dopotutto. Poi, ovviamente, stava alla persona presentarsi all’occasione, o meno. Bastava un telefono, accordarsi, e poi andarci e parlare. Non esistevano barriere. Bisognava comunque essere adatti allo scopo richiesto, ma senza preclusioni di partenza e un colloquio non si negava a nessuno.

Più avanti le cose si sono molto complicate, fino a diventare contorte. La verità è che se anche io oggi volessi parlare a qualcuno di un’idea e della sua fattibilità non saprei a chi rivolgermi. Poi, sono anche stato abituato bene: nella maggior parte dei casi sono sempre stati gli altri a cercarmi!

Sulla situazione attuale del fumetto e dell’animazione non riesco proprio a formulare un giudizio, perché da quando sono andato in pensione non l’ho più seguita. Però, con l’andare del tempo, ho avuto spesso l’impressione che ai produttori, e non solo a loro, non fregasse più niente del prodotto in sé. Non era gente che si appassionasse alla storia, e in qualche modo le volesse bene come, poniamo, accadeva invece con professionisti come Pierluigi De Mas quando insieme giravamo la serie animata sul “Cocco Bill” di Benito Jacovitti. Del resto, lui era anche un disegnatore. Ma ho anche avuto l’impressione che a molti non importasse gran che nemmeno della qualità, e nemmeno del piacere di perseguirla, come se, una volta ottenuto l’OK per la produzione, partissero direttamente per un’altra avventura disinteressandosi di questa. E’ un atteggiamento, questo, che non mi è mai piaciuto perché avvelena l’ambiente e ti fa passare la voglia di impegnarti. In ogni caso, le produzioni di oggi mi sembrano così tecniche, estemporanee e impersonali che non so come riescano ad azzeccare di tanto in tanto qualcosa di divertente.

Ho usate il termine “impersonali”, e per spiegarlo ricorro a un esempio: per la serie sulle “Formiche di Vettori”, che era impostata su gag visive in una situazione comica della durata di 3’, la produzione a un certo punto mi girò una lettera di protesta scritta da un animatore il quale si lamentava (con la produzione) perché non riusciva a disegnare “una cosa che non aveva senso”. La gag era questa: la formica riceveva un pacco, rientrava in casa, chiudeva la porta e apriva il pacco. Il pacco conteneva un soffio di Bora, il celebre vento di Trieste, e la formica cercava di catturarla per rinchiuderla di nuovo nel pacco con tutte le gag che si possono immaginare da tale situazione, fino a che alla fine la scena si allargava fino a comprendere la città di Saba e Scipio Slataper.

Ora, come fai a spiegare a uno che fa l’animatore che una cosa “non ha senso” proprio in quanto è – di fatto – un non-sense? E’ un po’ come chiedergli se secondo lui un topo o un papero che parlano sono “credibili”! Mi chiedo: ma chi ti ha detto di fare l’animatore se pretendi che ti venga spiegato il “senso” di una cosa del genere?!

Ma ancora peggio: perché la produzione non ha colto subito l’assurdità di una simile istanza?! Per me comunque il “cartone” si fa ancora alla “vecchia maniera”: tutti insieme in una stanza guardando uno story board sulla parete, e amen.

GZ: I dialoghi per il fumetto e il cinema: qualche parola su questo mestiere con cui hai ottenuto risultati memorabili, da Pugacioff a West & Soda.

SC: Doverosa premessa: il fatto che io sia diventato un dialoghista lo si deve a una invenzione di Bruno Bozzetto.

Avevano già girato quasi metà di “West & Soda quando si sono resi conto di non avere dialoghi adatti a sostenerlo. Non ci avevano pensato perché Bruno si esprimeva solitamente attraverso gag visive, sulla lunghezza del cortometraggio, e la trama di un western era apparsa loro talmente scontata da far credere che non avesse bisogno di creatività. Ma il film era davvero troppo lungo e articolato per reggere senza dialoghi adeguati al contesto, così venni letteralmente “pescato” per la bisogna. Bruno mi raccontò che in America esisteva il mestiere del “dialoghista”, spiegandomi in cosa consistesse e poi dandomi carta bianca. Fu bellissimo lavorare per lui, perché Bruno è sempre entusiasta e a volte anche molto, molto… entusiasta!

In genere io “scrivo come parlo”, e poi avevo letto molti fumetti e quindi analizzato numerosi esempi di “nuvole parlanti”; senza contare che scrivere fumetti era anche una delle mie attività. In pratica, sono una sorta di “dialogo vivente”! L’unico problema era che la metà del film era già stata girata con dialoghi che non funzionavano: la sera, quando chiudevano gli studi, andavo in moviola con il montatore, che era un rumorista di autentico genio, e rivedendo le scene avanti e indietro, fotogramma per fotogramma, modificavo il dialogo seguendo il labiale. Dopo un paio di sedute del genere, mi sono reso conto di poter far dire ai personaggi tutto quello che mi passava per la testa… e da quel momento mi sono divertito moltissimo!

GZ: Veniamo all’esperienza col Corrierino: partendo da “Mr Vudu” per passare al successo di “Piccolo Zeus”.

SC: Per il Corrierino mi era già capitato di aiutare un paio di volte Giuseppe Laganà sui testi del suo “Capitan Brok”: a José Rinaldi Pellegrini, allora redattrice capo del Corriere dei Piccoli, piacquero e mi sollecitò a scrivere qualcosa per conto mio.

Mi inventai “Mr. Vudu”, un mago dalla fisionomia simile a Mandrake ma dall’indole infantile e assai scalognato le cui malefatte venivano regolarmente sventate da un bambino. Lui cominciava incendiando dei pagliai per cercare “l’ago della bilancia del destino” (chissà a cosa gli sarebbe servita, poi?) e la vicenda si sviluppava così. Andando avanti avrebbe forse potuto assumere maggior spessore, ma sorsero alcuni problemi con i disegnatori. Aveva iniziato Anacleto Marosi, che poi si era ammalato; subito dopo ne aveva disegnata una storia Ugo Bertotti, che mostrava un segno schizofrenico quanto interessante ma non si sa perché, da un giorno all’altro, sparì dalla circolazione. Decisi che, per scaramanzia, era meglio lasciar perdere Mr. Vudu!

Nel frattempo, a casa, vedevo mia figlia, che allora aveva una decina di anni, guardare con interesse i cartoni di Mazinga in TV. Mi colpirono i colori, e in particolare il disinteresse nel cercare un rapporto diretto con la realtà, così mi sono detto: “Ma perché un bambino dei nostri non può essere un supereroe?” – e dato che la nostra tradizione classica vanta un intero Olimpo che in fatto di stranezze non è secondo a nessuno, mi vennero fuori Piccolo Zeus e Titano.

Alla Pellegrini piacque subito molto, ma non so perché i disegnatori ai quali lo propose non vollero saperne, al punto da dare l’impressione di avercela con la trama in sé… Un atteggiamento che mi fece perdere la pazienza, così piuttosto che modificare una virgola dello script decisi che lo avrei disegnato io, che ribadisco non sono un “vero” disegnatore: la Pellegrini, grande dirigente, non fece una piega. Tanto per farne capire lo spessore: pare che l’idea di battezzare “Puffi gli omini blu di Peyo sia stata sua…

Siamo dunque partiti con una decina di episodi autoconclusivi, che servirono a definire il personaggio e a capire come sarebbe stato accolto dai lettori. Incontriamo Piccolo Zeus che se ne sta tranquillo a casa a fare i compiti di aritmetica quando il burbero Titano riesce a fuggire dal pianeta in cui era prigioniero e, giunto sulla Terra, inizia a fare un gran casino. Al loro primo scontro, nella foga della lotta, gli faccio disintegrare interi palazzi e subito dopo ricostruire, tanto per rimanere coi piedi per terra ma anche per il grande amore che nutro per il Paperino di Carl Barks, quello che la notte di Natale si scontrava con zio Paperone ingaggiando una lotta tra due scavatrici a vapore ad un incrocio di Paperopoli, con il “Vecchio Cilindro” che alla fine pagava tutti i danni senza battere ciglio.

I personaggi man mano acquistarono un loro carattere più definito, e pareva che al pubblico infantile (mi rivolgevo ai giovanissimi lettori del “Corriere dei Piccoli”) piacessero, così si decise di proseguire con storie più complesse diluite in piccoli episodi autoconclusivi.

A me Titano era simpatico, così lui e Piccolo Zeus divennero grandi amici, e avrebbe potuto diventare un rapporto alla Batman e Robin capovolgendo però la linea gerarchica, ovvero con il bambino come eroe e lo “sfasciacarrozze” in veste di spalla. Siccome volevo far emergere il carattere di Titano aggiunsi anche la saccente Zeusina… l’idea che Piccolo Zeus avesse nell’Olimpo una sorella, con lui ignaro e lei consapevole di tutto, mi divertiva molto.

Tutto ciò spalancava poi un mondo intero fondato sulla performance del “Grande” Zeus nel generare “eroi” talvolta ignoti. In quanto alla “storica” domanda, ce ne sarebbe potuta stare anche un’altra: “Ma chi è la mamma di Piccolo Zeus?”, e molte altre! Un notevole ventaglio di possibilità che restarono tali nel momento in cui la Pellegrini passò alla direzione della Domenica del Corriere.

Il nuovo direttore del Corrierino non lo incontrai nemmeno, ma in quel momento ero tutto preso da film istituzionali e documentari industriali e tutto sommato non diedi molta importanza alla cosa.*

Quanto al disegno di “Piccolo Zeus“, torno a dire che io non sono un disegnatore, e proprio non essendolo amo moltissimo il disegno. Questo non vuol dire che io non sappia disegnare, significa solo che sapendo di non esserlo non ne ho fatto la mia professione. Come sottolineato in precedenza, sono consapevole della differenza tra il saper disegnare ed “essere” un disegnatore, e così come io pur sapendo disegnare non intervengo sullo stile di un disegnatore, non posso accettare che lui intervenga sulla mia storia pretendendo di cambiarla.

Poi, se ripenso al gusto che provavo da bambino nella lettura dei fumetti, la sola idea di essere riuscito a procurare lo stesso piacere ad altri bambini come me anche attraverso i miei disegni è una cosa che non so proprio come descrivere.**

GZ: Hai mai pensato a una sua eventuale ripubblicazione, o addirittura a una continuazione della serie?

SC: Nel periodo successivo a “Piccolo Zeus” sono stato molto occupato in ambienti distanti dal fumetto e così non ho proprio pensato né ad una eventuale ripubblicazione e nemmeno a continuare la serie. Non ricordo se esistevano delle testate compatibili per il pubblico del Corriere dei Piccoli. All’epoca il Corrierino aveva pubblicato dei cartonati con alcuni suoi personaggi come la pentola a pressione di Laganà ne Il Fantastico Viaggio Nella Cibosfera e altri, ma questo avveniva prima che cambiasse la direzione.

GZ: E a una serie animata? Pensi che funzionerebbe?

SC: Naturalmente la serie potrebbe continuare in forma di cartoon. I personaggi principali ci sono, e i caratteri tutti ben delineati. Le storie erano già volutamente aperte da subito a qualsiasi contaminazione, novità o stranezza extraterrestre, fiabesca, mitologica, robotica ecc. quindi potrebbe funzionare. Resta da vedere se esiste un mercato con il target adatto, lo spazio ottimale e l’interesse per il progetto.

GZ: Hai lavorato molto nei video pubblicitari, durante e dopo Carosello, partecipando al conio di tormentoni immortali quali “metti un tigre nel motore” e l’”uomo in ammollo”. Il processo creativo in pubbicità, secondo la tua esperienza.

SC: Fare caroselli non significava certo essere pubblicitari. E’ un po’ come la questione del saper disegnare e l’essere effettivamente un disegnatore. Il pubblicitario vero “stressa” completamente l’intero spazio a sua disposizione, nel bene e nel male. Lui non fa uno spettacolo per entrare nel codino ma fa in modo che il codino entri nello spettacolo, ne faccia parte, anzi “sia” lo spettacolo stesso. Non ce ne sono mica tanti capaci di farlo. Il mio lavoro, a parte Carosello, era tutt’al più quello di sostegno all’idea, quando c’era, del creativo pubblicitario. Voglio dire, lo slogan del “Tigre” lo inventarono loro, poi artisti come Gozzini lo hanno disegnato e gente come me ha scritto le storie per i giornalini che venivano offerti agli automobilisti quando facevano il pieno al distributore. In pratica, noi davamo forma al pensiero del pubblicitari: in un certo senso siamo stati, chi più e chi meno, degli “esecutori creativi”.

GZ: Come hai visto cambiare il mondo della pubblicità in Italia e la fruizione del pubblico televisivo?

SC: Con la chiusura di “Carosello” per me quel mondo era finito, smantellato; ma io resto comunque un autore e me la sono cavata. Pensate invece a quante aziende, e quanti professionisti, sono rimasti a terra di punto in bianco. Era comunque già chiaro allora che Carosello non avrebbe potuto continuare a lungo, in quanto non avrebbe retto alla proliferazione degli altri canali TV; ma più che la perdita del mezzo in se stesso, a me è dispiaciuto per la perdita delle opportunità che offriva ai giovani talenti per poter iniziare, vedere subito le loro opere realizzate, per capire gli errori da correggere e magari inventare nuovi linguaggi. Il cambiamento era quasi obbligatorio: chi si metteva più, ormai, insieme a tutta la famiglia davanti al televisore alle otto di sera per guardare, non dico Carosello, ma qualunque altro programma? Quella era ormai un’immagine da fiaba, quasi un’illustrazione per un libretto d’infanzia.

GZ: Hai lavorato con personaggi quali Maurizio Nichetti e Enzo Jannacci: rispetto a oggi era diverso, e magari anche più coinvolgente, collaborare con artisti sfaccettati come questi, o di fatto le condizioni lavorative e i rapporti sono rimasti i medesimi?

SC: Ciascuno fa storia a sé. Con alcuni di loro ci si vedeva anche fuori dal set, e con personaggi come Jannacci capitava di farsi anche delle belle risate, ma in generale non mi è mai capitato di incontrare primedonne con la puzza sotto il naso. Ho un aneddoto con Francesco “Ciccio” Barbi, quello cui la “moglie” negli spot della Fiuggi ripeteva “hai quarant’anni e ne dimostri il doppio”: Barbi era un attore vero che aveva lavorato anche con Totò e l’altro, l’attore che interpretava il “bello” che ne dimostrava venti, pur valendo assai meno si prendeva molto sul serio. Così, Barbi mi chiese di scrivere qualcosa per dargli l’opportunità di vendicarsi. Visto che Barbi all’epoca era pure cintura nera di arti marziali, gli preparai, come ultimo film della serie, una storia dove lui si sogna di massacrare l’altro a colpi di judo! La scena la girava Edo Cacciari nei teatri di Cinelandia, a Cologno Monzese (dove ora c’è Mediaset): tutti i teatri vicini andarono in pausa per venire ad assistere alle riprese, in cui “Ciccio” si vendicò di almeno sette-otto anni di umiliazioni, con il “rivale” che tutte le volte che si rialzava veniva ributtato inesorabilmente a terra e non riusciva proprio a capacitarsi della cosa. Ci divertimmo come matti. Era un mondo così.

GZ: Dal B/N al Colore, come è cambiato il lavoro di scrittura e rappresentazione visiva? A tuo parere la componente creativa è andata deteriorandosi o è semplicemente mutata adattandosi ai tempi?

SC: Cambia il mezzo e con esso ovviamente muta anche il linguaggio, ma le cose da dire alla fine sono sempre le stesse. In pubblicità lo scopo è vendere un prodotto, e di lì non si scappa. La sostanza resta quella. La componente creativa è tutta chiusa nella testa dei creativi delle agenzie: nei loro sogni… o nei loro incubi. Sono loro che decidono se tu stai usando un linguaggio utile in quel preciso momento, e solo per questo ti chiamano. Va da sé che mica puoi passare la vita accanto al telefono sperando che squilli, così nel mentre fai altro se vuoi sopravvivere; comunque, la pubblicità è stata una manna per tanti come me, e la ringrazierò sempre. Gli spot oggi sembrano tanti perché ce n’è un’invasione, ma guardando bene sono sempre gli stessi quelli che girano all’infinito, e quelli davvero validi buoni sono molto pochi… e pure quelli, alla ventesima volta che li vedi, tutto sommato ne hai già piene le scatole.

GZ: Due parole sul mestiere di storyboard artist.

SC: Per quel che ricordo mi è sempre venuto naturale schizzare una serie di scenette in sequenza per raccontare una situazione: si trattava in pratica già di rudimentali story board, e quando si lavora a cose simili per autentici autori/artisti come lo erano figure quali Marco Biassoni oppure Osvaldo Cavandoli, è sufficiente anche solo scarabocchiare stando gomito a gomito, inventando gag come farebbero due amici al bar. E’ una cosa che si può fare, ripeto, solo avendo a che fare con dei veri autori.

Bozzetti per un Carosello per la Pavesi con Marco Biassoni della serie “I cavalieri della Tavola Rotonda”: “Come mai non siamo in otto? Perché manca Lancillotto!” “Arriva Lancillotto-Succede un 48!”

Lavori su una cosa di cui sei tu anzitutto il primo spettatore, e se non ti fa nemmeno sorridere mentre la fai, chi vuoi che riderà guardandola? Questa è una cosa che non puoi far capire a un manager perché lui, poveretto, è rimasto alla scuola di Ragioneria.

Alcune volte è capitato che, al momento di pagarmi, domandassero: – “Ma, esattamente, che cosa hai fatto per Cavandoli***?” –. Chiedo io: come si fa a instaurare un rapporto con gente che si esprime così?

Poi comunque ci sono anche gli storyboard per gli spot pubblicitari, ed è tutta un’altra storia. Devono essere perfetti, e del resto si parla di 20 o 30” di filmato in cui ogni fotogramma deve, secondo l’agenzia, trasmettere il messaggio, magari anche subliminale, del prodotto. Il campo è vastissimo ed è legato ai gusti dell’agenzia, agli stili del momento, e così via. In genere è l’agenzia che si sceglie il disegnatore, il quale può anche essere diverso ogni volta, a seconda dello stile che gli serve per quello specifico cliente, per “rendere” il più possibile l’idea di cosa quest’ultimo vedrà come prodotto finito. Oggi ormai girano delle animazioni che potrebbero già costituire il film, e qualcuna è anche meglio del film stesso. Nulla è lasciato al caso, e così parecchi spot risultano ingessati e senz’anima.

Poi ci sono quelli dei film, come quelli per Bozzetto, che sono i veri story board classici dei cartoons. Come dice la parola stessa, traducibile come “storia sulla lavagna”, si puntano in fila su di un pannello i disegni in sequenza della scena da girare. Da Bruno per “West&Soda” ci si riuniva tutti, ma proprio tutti, compresi operatore, montatore, intercalatori, ecc., e si andava avanti a togliere foglietti e ridisegnarli cambiando battute e financo l’intera scena, fino a che tutti, nessuno escluso, non fossimo caduti dalle sedie per le risate. Dopo di che, la scena veniva trasferita sullo story board esecutivo per la produzione vera e propria comprensiva di dialoghi, timing, ecc.

GZ: Le tue collaborazioni, oltre a Bozzetto e Osvaldo Cavandoli, comprendono altri noti artisti dell’animazione italiana operanti nell’ambiente meneghino. Vuoi parlarcene?

SC: Di Bruno ho già detto. Ribadisco: lui è un entusiasta, sempre e comunque. Uscito “West & Soda”, il Giorno dei Ragazzi gli propose di farne un fumetto che subito girò a me, che già facevo fumetti, per i testi, affidando i disegni a Giuseppe Laganà, che aveva appena finito il servizio militare ed era in cerca di occupazione.

Non mi pareva vero di scrivere un western sulle pagine del giornalino che solo pochi anni prima aspettavo tutti i giovedì per leggermi “Dan Dare” e “Cocco Bill”!

Un’altra collaborazione notevole fu quella con Fusako Yusaki: quando ci siamo conosciuti era ancora graniticamente ferma agli spot del Fernet Branca. Lei doveva, assolutamente DOVEVA dissolvere da una scena all’altra attraverso la trasformazione della plastilina. Pierluigi De Mas voleva pagarmi da bere quando ha finalmente potuto vedere il primo vero stacco in un suo film! Anche queste son cose che come fai a spiegare a chi deve poi pagarti? Con Fusako abbiamo fatto pure un piccolo serial, “Naccio & Pom”, che è andato in onda alla TV giapponese. Una grande soddisfazione.

Con De Mas & Partners, per la serie su “Cocco Bill”, è stato il ritorno alle cose autentiche. Finalmente, da quando avevo cominciato alla scuola serale di “cartone animato”, trent’anni e passa prima, la RAI si era decisa a produrre dei serial a cartoni animati! Ci erano voluti il genio e la cocciutaggine di Pietro Campedelli per aprire un varco grazie alla serie animata sul “Lupo Alberto” di Silver. Con De Mas ci siamo ritrovati a fare cartoni animati sul serio. Con Oscar Avogadro spartimmo i titoli secondo il nostro gusto, e poi ci ritrovammo con Pierluigi e a turno gli leggevamo le nostre sceneggiature. Se per caso lui smetteva di ridere per un attimo cambiavamo la battuta, o anche tutta la scena, fino a che non tornava a sbellicarsi.

Se ci pensi sia io che Bozzetto, De Mas, Fusako, Cavandoli e molti altri ancora, eravamo come i sopravvissuti alla “strage” di Carosello, il Little Big Horn, la “Fort Alamo” della creatività libera.

L’ultima cosa che ho fatto, tra il 2009 e il 2010, sono state le già citate “Formiche” di Fabio Vettori, insieme a Giuseppe Laganà (regia): una serie di clip da utilizzare come siparietti durante le Olimpiadi, o qualcosa del genere.

GZ: Se possibile, in base alla tua esperienza, un giudizio sulle condizioni contrattuali odierne in Italia: meglio o peggio di un tempo?

SC: Di contratti non ci ho mai capito niente. Sono una persona troppo semplice per afferrare appieno tutte le virgole di un contratto. Al terzo paragrafo mi addormento e per questo non sono molto attendibile in materia… se la cosa non mi convince mi faccio aiutare da chi ne sa più di me.

GZ: Ultima, doverosa quanto semi seria domanda: vista la tua passione (e pratica) per questo sport, hai mai pensato a un fumetto/cartoon sulla pesca?

SC: Forse non sai quanto sono permalosi i pescatori e io vorrei garantirmi una vecchiaia tranquilla. E poi… non c’è già un certo Sampei?

Note:

*”Piccolo Zeus” venne serializzato sul CdP a partire dal n. 26 del 29 giugno 1978 e, con alcune interruzioni, continuò fino al n. 46 del 14 novembre 1980.

**Un’altra, approfondita intervista, con ancor più dettagli su “Piccolo Zeus” è disponibile qui: https://joe7.blogfree.net/?t=4897302

***Storyboard per LA LINEA (CAVANDOLI) – serie 200-225, prod. Quipos, 1984

N.B.: Una parte delle immagini di “Piccolo Zeus” tratte da “Il Corriere dei Piccoli” che appaiono a corredo del testo sono tratte dall’articolo di Gianluca Cavallo “Piccolo Zeus un fumetto da riscoprire”, pubblicato su Giornale Pop. Sentiti ringraziamenti a entrambi per la gentile concessione, oltre che, ovviamente, allo stesso Sergio Crivellaro.