16 Settembre 2016 19:28

Una Grande Mostra e tanti Libri, per l’uomo Hergé

Con la grande mostra nel prestigioso tempio dell’arte, il Grand Palais di Parigi, un libro dedicato all’Hergé intimo e tanti altri ancora, continua l’esplorazione, anche umana, del creatore di Tintin, una delle figure emblematiche del Belgio, un maestro del Fumetto europeo, un campione della letteratura del Novecento per giovani lettori dai 7 ai 77 anni.herge3

La sua vita privata è, naturalmente, un elemento costituente della sua opera (e non solo di Tintin). “Se vi dicessi che in Tintin, ho messo tutta la mia vita…” glissò con leggerezza Hergé nel 1982 in un’intervista.

 

Come ho avuto modo di raccontare in alcune delle mie numerose conferenze su Hergé e Tintin, l’ambiente in cui è nato e che ha frequentato in gioventù, lo ha modellato e “costretto”, fino a un certo punto della sua vita.

Hergé è il nome d’arte di Georges Rémi (1907-1983). Nacque in una famiglia rumorosa e frenetica. Bambino iperattivo, non si trovava a suo agio in famiglia (“mi sentivo mediocre…” e “… vedo la mia gioventù come una cosa grigia… grigia…”. Si rifugiava quindi spesso nel disegno, col quale poteva vivere nella sua fantasia. La malattia mentale era di casa, purtroppo, letteralmente. Sua madre entrava e usciva dai quei luoghi terribili che erano i manicomi del tempo. Vederla così, sempre peggio, soggetta a terribili crisi, curata con l’elettroshock, lo influenzò non poco: non stupisce che il tema della follia sia presente nelle avventure di Tintin e che si sia mostrato benevolo nei confronti di personalità eccentriche o bizzarre, come il professor Girasole e il capitano Haddock (“… Io riconosco come un caro amico, come un fratello, come un secondo me stesso…”).

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La mamma (Elisabeth Dufour), moglie di Alexis Remis, morì nel 1946, di ritorno da uno dei tanti “soggiorni” in ospedale psichiatrico. La famiglia era cattolica, “radicata a destra”, e il piccolo Georges frequentò, ovviamente, una scuola confessionale e gli scout, finendo con naturalezza nel giornale ultracattolico Le Vingtième Siècle, diretto dall’abate Wallez, fan di Mussollini, dove incontrò Leon Degrelle, che in seguito sarebbe diventato il fondatore del movimento Rexista di ispirazione fascista e, quindi, nazista. Tuttavia, Georges Remi non aveva una vera coscienza politica, a differenza delle persone dell’ambiente in cui viveva e lavorava, ed era decisamente influenzabile.

Immagine inviata dal titolare dei diritti come corredo per l'artioclo di afNews - (c) Hergé-Moulinsart

Lo si vede chiaramente dalle prime avventure di Tintin: praticamente volute e suggerite (nei contenuti politici) da Wallez (basta pensare a Tintin nel paese dei Soviet, del 1929), che lo influenzava persino nella vita privata (a lui si deve il matrimonio di Hergé con la prima moglie). Dovette arrivare all’incontro con il giovane artista cinese Chang Chong-Jen (e quindi all’avventura Il Loto Blu del 1934) per cominciare a maturare una consapevolezza diversa. Già perché, a differenza dalle altre, l’influenza di Chang fu decisamente positiva, gli aprì la mente, lo mise di fronte ai tristi luoghi comuni di cui la sua mente era infarcita e tutto questo mentre lo iniziava all’arte orientale. Il Loto Blu segna il distacco definitivo dall’influenza (nefasta) di Wallez (che contribuiva a mantenerlo infantile nelle sue analisi, ingenuo nella sua percezione politica, trasportato e sballottato dagli eventi): ora una persona nuova comincia a svilupparsi. Non sarà un processo semplice, veloce, indolore: tutt’altro. Ma sarà inarrestabile. Si libererà man mano delle pastoie confessionali, delle credenze popolari, del mostruoso “pensiero comune” che dominava l’Europa delle dittature e che si preparava alla tragedia immane della seconda guerra mondiale. Quel che a Hergé resterà del passato, sarà il senso di leale amicizia che aveva appreso con lo scoutismo. Tintin, lo si vede bene, è imbevuto di tutto quel che di positivo c’è nel movimento degli scout: è la trasposizione di questa parte dell’autore, di quel che avrebbe voluto essere e non era, così come negli altri personaggi ha riversato altri aspetti della sua psiche, i suoi difetti, le sue paure. Da un certo punto di vista, non stupisce che, con l’età, man mano che i suoi problemi psicologici andavano a sistemarsi, la sua voglia di fare storie di Tintin sia diminuita, essendo diventato, il raccontare storie, un lavoro e non più il luogo fantastico (ma saldamente ancorato alla realtà del suo tempo) in cui vivere “una vita diversa”. Chissà…

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Ma nel 1940 è ancora ai primi passi del suo percorso evolutivo personale e non si pone troppe domande quando, in piena occupazione tedesca e senza lavoro, accetta l’offerta di un amico e si rimette a fare storie di Tintin sul giornale Le Soir gestito dai collaborazionisti e dai tedeschi: lavorare o non mangiare, dev’essere stato il solo pensiero. Ma a guerra finita gli sarà facile rendersi conto di essersi posizionato davvero molto malamente: non fosse giunto in sua difesa il partigiano Raymond Leblanc (che voleva creare il settimanale per ragazzi Tintin e voleva Hergé come direttore), avrebbe forse fatto la fine dei suoi amici, falcidiati dalle condanne per collaborazionismo. I primi condannati ebbero la pena di morte, altri finirono in galera, altri ancora non poterono più lavorare… La sorte fu equivalente a ciò che accadde in Italia e altrove, ovviamente, quindi, col passare del tempo, le cose si assestarono. Il Paese ripartì, gli animi si acquietarono, il lavoro riprese. Leblanc nel frattempo aveva creato, nel 1946, la rivista cui teneva tanto e alla quale aveva messo alla guida Hergé (definitivamente assolto da ogni accusa).

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Ma certi avvenimenti lasciano il segno, e, nonostante il grande successo fumettistico degli anni precedenti, le tragedie della guerra, la sorte dei suoi amici, la morte della madre, la sua stessa sorte incognita (era convinto di finire quanto meno in prigione), tutto lo porta alla depressione. Nel 1948 confessa alla prima moglie (Gearmaine) di essere “… stanco di ripetere per la sesta volta la stessa gag… Non disegno più come se respirassi, com’era prima… Tintin non è più me…”.
Comunque, stavolta costretto dalle necessità del lavoro, continua a fare fumetti, anche se non con lo stesso spirito, mentre la crisi personale e di tutti i valori cui aveva creduto prima, lo portano alla rottura con tutto il suo passato, a cominciare forse proprio dalla moglie. E sarà poi una donna a salvare la sua psiche e a spingerlo nuovamente e con maggior energia in avanti, nella costruzione del nuovo Hergé. Nel 1956, infatti, ha iniziato una relazione con Fanny Vlamynck, colorista dello Studio Hergé. Non è un’avventura, questa: Hergé si innamora davvero, chissà, forse per la prima volta in vita sua. Tintin in Tibet, del 1958, è il suo album più personale e psicologico, è una dichiarazione d’amore per Fanny, vi scarica i suoi “incubi bianchi” e cura i suoi demoni del passato.

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Poco dopo, lascia la moglie Germaine e va definitivamente a vivere con la sua futura seconda moglie. Legge libri che non aveva mai letto prima, viaggia, scopre il buddismo, espande la mente. Resterà comunque in rapporti amicali con la prima moglie e la sosterrà sempre: lo scout Georges resta sempre leale coi suoi amici… Il divorzio arriva solo nel 1977, quasi vent’anni dopo la loro separazione. Infine Fanny ed Hergé si sposano.

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Parte della sua rinascita passa per la passione per l’arte contemporanea. Si dedica egli stesso, per un po’, alla pittura astratta, andando a lezione dal pittore belga Louis Van Lint, ma non fa per lui. Si dedica quindi al collezionismo di opere d’arte, consigliato anche dallo scrittore e critico d’arte Pierre Sterckx.

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Morirà il 3 marzo 1983, dopo aver potuto finalmente rincontrare, avendolo sempre cercato inutilmente per decenni, il suo amico Chang nel 1981.

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Hergé e Chang, primi anni trenta.

Insomma, anche solo da questo brevissimo scorcio, decisamente sintetico e frammentario, raccontato velocemente, si capisce quanto complessa e interessante, colorata e grigia, depressa e felice, sia stata la vita di Hergé, vita che ha riversato, costantemente e inevitabilmente, nella sua opera. Va da sé che di materiale per mostre e libri ce n’è davvero una quantità enorme!

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