22 Luglio 2015 12:37

Irene Mossa parla di Si Alza il Vento

2015-07-17-afnews.info-si-alza-il-vento-oorlandoo-2convSI ALZA IL VENTO” di Hayao Miyazaki

di Irene Mossa

Si alza il vento!…Dobbiamo cercare di vivere…”

A questi versi di Paul Valéry si ispira l’ultimo film di Hayao Miyazaki, “Si alza il vento”. Ultimo e conclusivo della sua lunga carriera, perché il regista – lo ha annunciato lui stesso – dopo questo lungometraggio non dirigerà più film.

Ed è, infatti, un’opera in cui si condensano tanti motivi e passioni che percorrono i suoi film: l’amore per il volo e per gli aerei, la meraviglia e la gioia dei sentimenti umani, la bellezza della natura, ma, al tempo stesso, anche la terribile distruttività di cui sia l’uomo che la natura, in modo diverso, sono capaci. Miyazaki esprime qui, come ha fatto in altre sue opere, ma in modo ancora più chiaro e profondo, una riflessione, consapevole e dolorosa, sull’infinita bellezza della vita, sui sogni che la illuminano e la rendono degna di essere vissuta, e sulla sua contraddittorietà, sulla sua immensa fragilità.

Il protagonista di “Si alza il vento”, Jiro Hisaishi, rispecchia un uomo realmente esistito, l’ingegnere aeronautico Jiro Horikoshi (1903 – 1982), progettista di aerei usati dal Giappone durante la seconda guerra mondiale. C’è inoltre in Jiro anche una forte componente personale e autobiografica: il padre di Miyazaki, da lui molto ammirato e amato, era un ingegnere aeronautico, e da lui il regista ha ereditato la sua passione per il volo. Una passione che si scontra però con una contraddizione, profonda e irrisolvibile: gli aerei costruiti dal padre, invece che come “strumenti di liberazione dalla gravità”, come Miyazaki li vedeva e li sognava, erano usati anche per scopi bellici. Ed è di questa contraddizione, di questo dolore – il dolore di fronte alla creatività dell’uomo, che può in un attimo trasformarsi in stupidità e distruttività – che parla il film.

Il piccolo Jiro Hisaishi, dunque, nel Giappone del 1918, ha un sogno: costruire aerei. A far nascere in lui questo desiderio è Caproni, ingegnere italiano – anche lui realmente esistito – figura talmente presente nella sua fantasia da comparire spesso nei suoi sogni, a mostrargli aerei meravigliosi, che si librano leggeri nell’azzurro del cielo, oltre le nuvole.

Jiro è un ragazzo determinato, e decide di studiare per diventare ingegnere aeronautico, per realizzare il suo desiderio.

Un giorno, mentre è in treno, il ragazzo raccoglie il cappello, portato via dal vento – quello stesso vento che permette agli aerei di volare – di una bambina, Nahoko. I due si scambiano poche parole, ma significative: recitano proprio il verso di Valéry, che entrambi conoscono, leit-motiv del film: “Le vent se lève!…” “Si alza il vento”…

Un verso che è un inno alla vita, alla gioia e alla voglia di vivere. E che accompagna un momento magico: Jiro e Nahoko si sono incontrati, si sono “riconosciuti”. Ma dietro la bellezza e la poesia, dietro un attimo di gioia c’è sempre il rischio, l’oscurità, il buio. E infatti, poco dopo questo dialogo, mentre i due ragazzi sono sul treno, un tremendo boato scuote la natura, i prati verdissimi di un Giappone ancora rurale: è il terribile terremoto del Kanto, avvenuto nel 1923.

Jiro, con coraggio e generosità, aiuta Nahoko a mettersi in salvo, e salva se stesso e quella ragazzina, che forse nel suo cuore già sente di amare.

I due si incontreranno di nuovo anni dopo, lui ormai brillante progettista di aerei, lei pittrice, in un albergo, immerso nella natura. In questa piccola oasi di pace, lontana dal rombo della guerra e dal caos che si avvicina – e che ricorda la “Montagna incantata” di Thomas Mann – Jiro e Nahoko capiscono di amarsi, e, ancora una volta, il vento, e un piccolo aereo di carta, diventano il veicolo e il simbolo del loro amore nascente.

Per un po’, sembrano esistere solo la gioia e la bellezza: del cielo limpido, dell’erba su cui si riflette solo qualche nuvola, di Nahoko che dipinge felice, vestita di bianco.

Ma la realtà incombe, con tutto il suo carico di pesantezza e di dolore: Jiro deve tornare a lavorare, a progettare i suoi aerei, mentre Nahoko, malata di tubercolosi, va in un sanatorio, per cercare di guarire.

Finalmente, dopo tanti collaudi andati male, il giovane riesce a far volare il suo aereo, il famoso aereo da caccia Zero, un modello veloce e modernissimo. Ma è iniziata la seconda guerra mondiale, molti di quegli aerei verranno usati in guerra, e, da simbolo di leggerezza e libertà, diverranno strumenti di morte. E’ una contraddizione che però Jiro, evidentemente, non sa e non vuole affrontare: in una conversazione con un suo amico progettista, pur consapevoli che i loro velivoli saranno utilizzati per scopi militari, i due si dicono, per rassicurarsi, che “vogliono solo costruire degli ottimi aerei”.

Nahoko intanto si è aggravata, e i due ragazzi si sposano, scegliendo di vivere insieme quello che il destino offrirà loro, “giorno dopo giorno, momento per momento”.

Alla fine, gli splendidi aerei di Jiro saranno abbattuti durante la guerra, e ne resterà solo un cumulo di macerie fumanti. E anche la vita di Nahoko, la sua bellezza e la sua purezza saranno presto sconfitte dalla malattia.

In questo scenario di desolazione e di morte, è solo in sogno, o in una sorta di limbo sospeso tra il sogno e la vita reale, che Jiro può continuare a veder volare i suoi aerei, leggeri e luminosi, e ad incontrare Nahoko, bellissima e sorridente come l’aveva conosciuta, nelle immagini finali del film. Lì, in sogno, rivede anche Caproni, a cui dice che non voleva che i suoi aerei venissero usati per la devastazione della guerra. Caproni gli risponde che però lui ha realizzato il suo desiderio: ha costruito un aereo stupendo. E Nahoko gli dice una sola parola: “Vivi!”

Sappiamo, da un’intervista a Miyazaki, che nella prima stesura da lui scritta era un’altra la frase che la ragazza rivolgeva a Jiro: “Vieni!”. Ma, poco prima di terminare il film, il regista ha cambiato idea: ha scelto un’altra frase per il finale, che ne cambia completamente il senso. Nella sua ultima opera, la più personale e sofferta, densa di tutti i dubbi e gli interrogativi che lui stesso, attraverso il suo alter-ego Jiro, si pone – e di cui forse si chiede quale sia la risposta – Miya-san ha raccontato sì il fallimento di un sogno, la morte e la distruzione, ma ha voluto alla fine chiamare alla vita. Quasi a dire che, anche quando i sogni e i momenti di pienezza e felicità sono sconfitti dalla realtà, e l’amore, forza potentissima che salva gli esseri umani, è spezzato da un destino crudele, vivere, continuare a vivere, nonostante tutto, rimane l’ultimo, e l’unico messaggio possibile, con cui si può riuscire a dare un senso all’esistenza.