17 Marzo 2015 18:30

Tintin in America, razzista? Naturalmente no

TintinAmericaCoverOriginaleArtcurialbSiamo alle solite? Sì. Sull’onda del successo e della relativa pubblicità connessa, è facilissimo trovare qualcuno che attacca un fumetto accusandolo di qualcosa di orribile. Come il razzismo, odioso pregiudizio sicuramente tanto orribile quanto (ancora enormemente) diffuso nella specie umana.
A chi è toccato stavolta? A Tintin. Ah, direte voi lettori accorti e fedeli seguaci delle afNews, sarà di nuovo per Tintin in Congo (1930)… Ma non c’era stata una sentenza definitiva a scagionarlo dall’accusa infamante?
Certo che c’è stata, nel 2012 e, infatti, non si tratta di quell’albo, bensì, udite udite, di Tintin in America (1931).
In America?!
Ma cosa c’è di razzista in quella storia naïf, vi chiederete? Certo non la rappresentazione degli afroamericani, che per giunta venne cambiata radicalmente, per l’edizione a colori del 1946, proprio per eliminare anche solo l’ombra degli stereotipi grafici tanto universalmente diffusi negli anni trenta del secolo scorso (anche) in Europa (e in Italia anche oggi, come vediamo purtroppo quasi ogni giorno). E allora?
Allora qui si tratta dei nativi americani (coloro che è politicamente assai scorretto chiamare “pellerossa”, nel caso vi fosse sfuggito). Tasha Spillet, educatrice delle First Nations, ha ravvisato elementi razzisti nel modo in cui gli Indiani (d’America – ma questa definizione è politically correct?) sono narrativamente rappresentati nell’albo di Tintin.
Al di là del fatto che, come ogni buon esperto di Tintin sa, Hergé e i suoi amici scout avevano una sorta di adorazione per i nativi americani, di cui apprezzavano in particolare il rapporto con la natura, la catena Chapters ha esaminato il caso sollevato a Winnipeg, dove l’albo era stato prudenzialmente ritirato, e ha rapidamente decretato che non c’è proprio nulla che non vada in Tintin in America e che venga pure nuovamente esposto. Così è stato, amen.
In effetti i criteri per togliere un libro dalla Chapters sono questi: che si tratti di pornografia infantile, che si tratti di libri contenenti istruzioni per costruire armi di distruzione di massa, che si tratti di scritti aventi lo scopo di incitare la società all’eliminazione di un gruppo di persone.

Per la cronaca, la sentenza belga che definì una volta per tutte la non colpevolezza di Tintin in Congo (anch’esso modificato drasticamente per la nuova edizione a colori del 1946), chiarì formalmente, per quanto lapalissiano, che si trattava di un libro scritto durante l’epoca coloniale e che non conteneva alcuna evidenza di una volontà da parte dell’autore di incitare all’odio razziale, anzi. E, che piaccia o no a estremisti integralisti et similia carichi di pregiudizi e odio, le cose stanno davvero e semplicemente così.