16 Settembre 2014 08:45

Qual’è il limite dell’amicizia?

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Jataka Sataka, racconti mitici delle vite precedenti del Buddha - il Bodhisattva quando era una lepre donò il suo stesso corpo, gettandosi da sé nel fuoco, per non far morire di fare un asceta che non l'avrebbe mai ucciso per cibarsene - schizzo di Gianfranco Goria fatto mentre traduceva questo racconto dall'originale in lingua Pali, la lingua del canone buddista - 1975
Jataka Sataka, racconti mitici delle vite precedenti del Buddha – il Bodhisattva quando era una lepre donò il suo stesso corpo, gettandosi da sé nel fuoco, per non far morire di fare un asceta che non l’avrebbe mai ucciso per cibarsene – schizzo di Gianfranco Goria fatto mentre traduceva questo racconto dall’originale in lingua Pali, la lingua del canone buddista – 1975 ca.

Per qualcuno non c’è, il limite. Per qualcuno è chiaro che non c’è amore più grande che dare la vita per qualcuno. E’ Giovanni (15, 13-15) che cita Gesù? E’ Gesù che cita Buddha (Jataka)?

E’ Tintin, in Cina nel 1936 (in bianco e nero, poi a colori nel 1946) e in Tibet nel 1958.
Tintin vive proprio questo concetto di amicizia senza limite. Certo, ci si dovrebbe chiedere cosa vuol dire essere davvero amici, giacché “amico” è un termine spesso usato a sproposito.

Statuetta basata sulla versione originale in legno di Patrick Regout – Tintin e Chang, oggetto anche di una vertenza legale: vedi su http://goo.gl/m2uYX4
Statuetta basata sulla versione originale in legno di Patrick Regout – Tintin e Chang, oggetto anche di una vertenza legale: vedi su http://goo.gl/m2uYX4

Ma per uno come Tintin non ci sono dubbi. Sa bene per chi rischiare la pelle e, in questo caso, si tratta del giovane Chang, l’amico che gli ha fatto scoprire i propri limiti culturali, che lo ha risvegliato al rispetto per la diversità, che gli ha fatto capire quanto fosse stolto adeguarsi agli stereotipi del suo tempo. C’è uno scivolamento costante fra il Chang della finzione, il ragazzino che, sempre istintivamente, senza pensarci un attimo (e quindi non per amicizia, ma per pura generosità d’animo), Tintin salva dalle acque ne Il Loto Blu, e il Chang della realtà, il giovanotto che era venuto dalla Cina negli anni trenta per studiare arte a Bruxelles e che ha aperto la mente al giovane Hergé, fino ad allora schiavo del “pensiero comune”, di quel che gli era stato inculcato nell’ambiente in cui aveva vissuto. Il Chang della realtà gli offre anche la possibilità di evolvere artisticamente, mettendolo a confronto con l’arte antica del suo Paese e fra i due si crea un legame che andrà oltre i limiti geografici. Chang Chong Jen infatti deve poi tornare in Cina e Hergé ne perde le tracce. Tempi decisamente difficili, quelli, e le comunicazioni non erano certo quelle odierne. Ci vorranno molti anni di ricerche, dopo la guerra, perché Hergé riesca, in modo avventuroso, a ritrovare l’amico e a farlo tornare a Bruxelles. L’evento colpì l’intera nazione: le televisioni seguirono l’arrivo di Chang e il commovente nuovo incontro dei due amici nella realtà, dopo quello avuto solo nella finzione con Tintin in Tibet. E’ il 18 marzo 1981, sono passati 45 anni e Hergé è molto malato, ormai, come si vede dalle immagini: morirà due anni più tardi, il 3 marzo 1983. Quando, alle telecamere, Hergé attribuisce a Chang l’immenso merito di avergli aperto “porte e finestre”, sa bene che non si parla solo della conoscenza di una lontana cultura millenaria, ma di molto, molto di più.

L’artista Chang patirà, naturalmente, anche la rivoluzione culturale cinese, che non amava punto gli intellettuali d’alcun tipo, e in Patria dovrà quindi guadagnarsi da vivere facendo lo spazzino. Ma diventerà un artista apprezzato quando quella disastrosa rivoluzione nella rivoluzione giungerà al proprio termine. Prenderà poi la cittadinanza francese, dopo aver ritrovato Hergé, nel 1985, si stabilirà in Francia su richiesta di  Danielle Mitterrand, e continuerà a fare lo scultore, fino alla propria morte, l’8 ottobre 1998.

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Invece la sorte del Chang di carta ci è ignota. E’, comunque, proprio la sua praticamente certa scomparsa in un tragico incidente aereo a scuotere la tranquilla vacanza montana di Tintin. Il DC 3 della linea Patna – Katmandu si schianta contro il massiccio dello Shisha Pangma (Gosainthān era il nome ufficiale all’epoca degli eventi) a causa di una tempesta e i quotidiani che riportano la notizia non offrono alcuna speranza per i 14 passeggeri e i 4 membri dell’equipaggio: la zona è deserta, il freddo insostenibile, i soccorsi faticano a raggiungere la meta e non potranno mai arrivare in tempo, se pure qualcuno fosse sopravvissuto allo schianto. Tintin non sa ancora che il suo amico era uno di quei disgraziati, quando, leggendo, commenta “Poveretti! Genitori, figli e amici li stavano aspettando… invece avevano appuntamento con la morte.”. Come non ricordare Samarcanda e l’inutilità del tentativo di sfuggire all’appuntamento con la nera signora, o l’identico appuntamento dell’amica di Guccini nella canzone a lei dedicata?
Occorreranno ancora diverse pagine prima che noi si debba vedere Tintin in lacrime. Ma allo sconforto prende rapidamente posto la determinazione di Tintin: sulla base di un inaffidabile incubo il nostro giovane reporter è certo che Chang non sia morto e che egli debba assolutamente andare a salvarlo. Una spinta emotiva, totalmente irrazionale, priva di alcuna prova concreta, costringe il razionalissimo ragazzo a seguire l’istinto. Di contro, l’emotivo, istintivo e irrazionale capitano Haddock, resiste, con argomenti concreti e ragionevolissimi, alla decisione di Tintin: “Ma ragazzo mio, questa è una follia!”. Siamo all’inversione dei ruoli? Haddock deve per forza cercare a tutti i costi di impedire all’amico (che ormai considera come un figlio, nonostante si diano del lei) di ficcarsi in una impresa non solo disperata, ma nella quale il rischio di perdere la vita è esageratamente alto, quasi una certezza, oltre che privo di giustificazioni razionali.
Niente da fare, proprio a motivo dell’amicizia che non conosce ragioni, che non accetta ostacoli e che è pronta a dare la vita, Tintin è irremovibile. Cosa resta da fare al povero Haddock, la cui amicizia è anch’essa senza limiti?

Vargese

Di più non voglio raccontarvi qui: dovete leggerlo, questo racconto, tutto basato sul sentimento dell’amicizia e sul colore bianco. Smorzerò, anzi, la tensione, dicendovi che Tintin era in vacanza, con Haddock e il professor Girasole, all’Hotel des Sommets, nelle Alpi dell’Alta Savoia, a Vargèse (col suo lago, la sua spiaggia, le sue montagne, le sue passeggiate, il suo casinò, come recita il cartello stradale posto nella prima vignetta del 17 settembre 1958, vignetta che verrà eliminata nel rimontaggio per l’edizione in albo cartonato del 1960), prossimo al bianco dei ghiacciaci. Hergé amava quelle montagne, la Svizzera e l’Italia, a giudicare dai suoi viaggi. Normale che abbia deciso di far trascorrere un periodo di riposo ai suoi eroi da quelle parti. Va da sé che il nome del paesino montano sia “inventato”, ma fino a un certo punto. Lo troviamo già citato nell’avventura La Vallée des cobras (della serie Les Aventures de Jo, Zette et Jocko del 1939 e che diventerà albo a colori solo nel 1957). E’ il paese in cui sembra esser solito andare in vacanza il Mahārāja di Gopal (sì, quello che regalerà il famoso gioiello alla soprano Bianca Castafiore, ma questa è, davvero, un’altra storia), che però scende all’Hôtel des Neiges, e dove i Legrand (Jo, Zette, Jocko e genitori) hanno uno chalet.

CV1939-15 Jo et Zette au pays du Maharadjah - Herge - Vargeze Vargese

Ma il punto è: esiste o no, Vargèse (Vargèze, nella prima versione)?
Manco a dirlo, questi sono gli argomenti con cui si divertono un sacco i tintinofili e tintinologi come me! Su Wikipedia troverete una scheda dedicata a questo paesino di villeggiatura, indicato come “di fantasia”. Ma la fantasia tende a costruirsi partendo dalla realtà, si sa. E parte del divertimento del fumettista sta anche nel seminare indizi per vedere se i suoi lettori sapranno trovarli. In questo caso la ricerca deve spostarsi all’avventura degli anni trenta, pubblicata dalla rivista cattolica per ragazzi Cœurs Vaillants che aveva chiesto a Hergé una serie che desse un esempio migliore ai giovani cattolici (storie con una famiglia, insomma, visto che Tintin non ne aveva e sembrava pure non lavorare mai per andarsene sempre in giro in cerca d’avventure).  Il 19 gennaio 1936 esce la prima puntata della nuova serie sul numero 3 della rivista, ma è nel 1939 che (secondo quanto si legge qui)  si scopre che “… Jean Vaillant, qui visitait … la Maison de Repos des Cœurs Vaillants, à Saint-Gervais, en Haute-Savoie, se promenait allègrement … sur les pentes enneigées du Mont d’Arbois, lorsqu’il vit venir à lui, à toute vitesse … Jo, Zette et Jocko…“. Gli appassionati, come si vede, si sono dati un gran da fare, nei forum, e hanno offerto una soluzione plausibile assai. Peraltro Vargèse suona decisamente come l’anagramma fonetico di Gervais ed è coerente coi nomi della zona. In tal caso parrebbe evidente che Hergé scelse quel nome per richiamare intenzionalmente la cittadina della citata casa di riposo collegata al nome della rivista francese, una delle tante  che si trovavano (e si trovano) da quelle parti. Ma… esisteva davvero una casa di riposo con tale nome? Esisteva forse una casa di riposo collegata in qualche modo alla casa editrice cattolica che pubblicava quella storia? Volete cimentarvi nel trovare risposta a questi quesiti?

annonce de Tintin au Tibet publiée dans le numéro 522 du 23 octobre 1958 du journal Tintin édition française

Per la cronaca, la striscia pubblicitaria che vedete qui sopra, apparsa sul giornale Tintin numero 522 del 23 ottobre 1958 e che annuncia l’uscita della prima puntata di Tintin in Tibet, contiene testi diversi da quelli definitivi e ufficiali. Testi che curiosamente collocano la fittizia Vargèse a una ventina di chilometri da Chamonix: è più o meno la distanza che Google Maps indica fra le terme di Saint Gervais e Chamonix. A questo punto sarete diventati pignoli e vorrete sapere perché la data ufficiale della prima vignetta è il 17 settembre 1958, mentre l’annuncio dice al lettore che la storia uscirà il 30 ottobre 1958. Forse quel banner è del’edizione francese del giornale Tintin, mentre la storia era già uscita prima nell’edizione del Belgio? A buon ricercatore, poche parole…

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Una quantità enorme di cose (non solo di questo tipo) si nascondono in ogni storia di Tintin, come in tutti i grandi romanzi, e ne creano il fascinoso ambiente complessivo. Cose serie e cose divertenti. E molti piccoli dettagli. Non sempre corretti, a dire il vero. Peraltro come sarebbe possibile la perfezione? E, in fondo, i piccoli blooper che si trovano, aggiungono divertimento al lettore appassionato. Ce ne sono, certo, anche nel curatissimo Tintin in Tibet e ve ne segnalo qualcuno, per il vostro piacere extra letterario.

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Intanto possiamo notare che, delle 62 tavole che compongono il racconto, 6 sono ambientate in Europa, poi ce ne sono 3 in India, per passare a Nepal e Tibet in modo non chiaramente definito da pagina 10 a pagina 27. Il Tibet avrà l’esclusiva sicura da pagina 27 fino alla fine. La collocazione temporale della storia viene definita dalla busta della lettera di Chang: ci sono un timbro postale e dei francobolli. L’annullo porta la data del 19 luglio 1958. Tintin poi parte per il Tibet dove arriva senza problemi, per cui possiamo supporre che sia prima del 10 marzo 1959, quando nel Tibet già occupato dalla Cina ci fu la grande rivolta di Lhasa contro l’esercito cinese, con gran numero di morti, il Dalai Lama dovette fuggire all’estero e l’annessione alla Cina venne definitivamente completata. Tintin avrebbe avuto serissime difficoltà a passare la frontiera in quella situazione. I disegni mostrano chiaramente che i nostri eroi sono in Francia in estate. Insomma, ci sono indizi bastanti a collocare gli eventi nell’estate del 1958, quindi grosso modo in contemporanea con la sua uscita sulla rivista Tintin.

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A questo punto ci dedichiamo alle cosette che nell’insieme del racconto non creano alcun problema narrativo, ma che divertono da morire i ricercatori accaniti di blooper di vario genere. Si arriva a Delhi con un volo di linea per poi partire, tre ore dopo, per il Nepal. In questo breve lasso di tempo si fa l’impossibile: dall’aeroporto internazionale al Qutab Minar, quindi al minareto a sud di Nuova Delhi, e poi il Forte Rosso nella vecchia Delhi, e ancora si visita un mausoleo a sud di Nuova Delhi, il Jama Masjid a vecchia Delhi e il Rajghat a est della vecchia Delhi, avendo anche il tempo di perdersi nella città vecchia… Decisamente impossibile. Ma voi non ci farete caso, ovviamente, presi dallo svolgersi dell’azione, com’è giusto che sia in letteratura. Tuttavia, vi capitasse di andare a Delhi, fate la prova, visitate in quell’ordine i vari monumenti e scoprirete che… Hergé non ci era sicuramente andato di persona!
Lo si nota anche dalle case del villaggio tibetano, ampiamente decorate col legno (quindi belle da disegnare), che sarebbero invece tipiche di zone più boscose. Ma tant’è: l’autore ha usato molta bella documentazione fotografica, ma non è certo diventato matto con i dettagli più minuti. Non ha contato, per dire, il numero di braccia che la tradizione richiede abbia una determinata statua, qua e là i colori non sono quelli previsti dall’iconografia tradizionale (ma non escludiamo che le foto usate fossero in bianco e nero) e manca qualche scalino richiesto dalla specifica architettura religiosa (dove i numeri sono significativi). In compenso, come praticamente sempre, le scritte non sono a casaccio: possono tutte essere regolarmente tradotte dalle varie lingue utilizzate. Poi ci sono i consueti giochi di parole e la toponomastica inventata basandosi su paesi del Belgio modificati per avere un “carattere tibetanoide”: Wei-Pyiong, Poh-Prying e Khor-Biyong, per fare degli esempi citati espressamente da Hergé il 3 maggio 1979, sono rispettivamente derivati da Wépion, borgo nella provincia di Namen, Poperinge, che è nelle Fiandre, e Corbion, paesino delle Ardenne vicino a Bouillon. Poi ci sono le variazioni dovute ad agenti esterni, come lo sfortunato DC 3 che è esattamente (e giustamente) quello delle linee aeree indiane, ma che diventa Sari Airways nelle edizioni successive a seguito delle comprensibili richieste della compagnia aerea. Ma a quanto pare, nessuno dei preoccupati richiedenti notò che a pagina 28 si vedeva benissimo il logo della compagnia e a pagina 58 c’era la minuscola scritta Air India, che è quindi rimasta sul fianco del disgraziato velivolo in tutte le edizioni seguenti…

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Non dovrei dirvelo, se non l’avete ancora letto, ma in questo romanzo non ci sono “cattivi”. Qui l’avversario è altro, e potrebbe addirittura essere imbattibile, ben al di là delle forze di un essere umano.
Hergé ha avuto una vita complessa e anche il suo cervello ha dovuto affrontare avversari interni ben più forti e temibili e subdoli di quelli esterni (ne so qualcosa, purtroppo), e più d’una volta. A partire dai condizionamenti infantili, più legati all’ambiente famigliare, arrivando a quelli giovanili, dovuti agli ambienti extra famigliari, il tutto nel contesto arretrato e drammatico, quando non disastroso, dell’Europa tra le due guerre mondiali. Nel periodo in cui l’autore lavora a questo episodio delle avventure di Tintin, i suoi incubi hanno come colore dominante il bianco. Ne parlerà con grande sincerità a Numa Sadoul, nel corso della sua lunga intervista personale (quasi una seduta psicoanalitica): “In quel periodo attraversavo una vera crisi e i miei sogni erano quasi tutti bianchi. Ed erano molto angoscianti… […] Ne ricordo uno in cui mi trovavo in una specie di torre fatta da rampe successive. Delle foglie morte cadevano e ricoprivano tutto. A un certo punto, in una sorta di alcova d’un bianco immacolato, è apparso uno scheletro tutto bianco che ha cercato di prendermi. Istantaneamente, tutto intorno a me, il mondo è diventato bianco, bianco. E sono scappato, una fuga senza fine… Quando ho raccontato al dottor Ricklin questo sogno e alcuni altri, mi ha consigliato di smettere di lavorare…” *
Ma Hergé continuò lo stesso a lavorare all’avventura tibetana.

Georges Prosper Remi, che la gente conosce e apprezza come Hergé il geniale creatore delle affascinanti avventure di Tintin, deve uscire dai condizionamenti del passato per vivere la propria vita futura infine libero. I sensi di colpa abbondano, tanto gli erano stati piantati in profondità negli anni dell’infanzia e della gioventù. Anche il solo pensiero ipotetico di una separazione dalla sua prima moglie può mandarlo in profonda depressione. Eppure la sua nuova vita è lì, davanti a lui. Ce la farà, certo, ma non gratis, tutto ha un prezzo. Aprirsi finalmente a nuovi orizzonti e liberarsi dei fardelli del passato non sarà uno scherzo e parte del duro lavoro che dovette fare su se stesso (non senza l’aiuto di specialisti, come abbiamo visto), viene riversato nel bianco di Tintin in Tibet. Producendo per i suoi lettori un gioiello di narrativa per ragazzi (ma non solo per ragazzi, come sappiamo) e per se stesso una sorta di ardua psicoterapia su carta.

Leggetelo, Tintin in Tibet. Regalatelo alle giovani generazioni. Avventura e risate non mancano e c’è molto di più di quel che potrebbe apparire a prima vista a un occhio distratto. Non abbiate paura di farvi abbagliare dal bianco candore delle nevi (quasi) eterne e delle alte vette: su carta non rovina la retina.

[NdR: Pare proprio superfluo scriverlo, ma ovviamente il copyright delle immagini di questa pagina è Hergé/Moulinsart solo per tutto quel che è effettivamente di proprietà Hergé/Moulinsart, nei limiti previsti dalle leggi vigenti, come suol dirsi. Il resto è copyright degli altri aventi diritto, sempre nei limiti previsti dalla legge.]

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*: Numa Sadoul, Tintin et moi, entretiens avec Hergé, Casterman 2000, pagina 178.

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