9 Giugno 2011 18:15

Annecy reportage II: des chats et des dieux

Dal nostro inviato ad Annecy: Il secondo lungometraggio francese in concorso ad Annecy è anche la seconda prova alla regia del grande fumettista Joan Sfar dopo ‘Gainsbourg: vie hèroique’: Sfar è un maestro nel far rivivere miti e tradizioni del mondo ebraico percorrendone tutte le varianti, dal folklore yiddish alle lussuriose promiscuità levantine; in questo ‘Le chat du rabbin’ (in italiano ‘Il gatto del rabbino’, tratto dalla sua omonima graphic novel pubblicata in Italia da Rizzoli) riesce ad infilare davvero di tutto: rabbini che ballano e cantano a braccetto di imam mussulmani di cui sono omonimi (Sfar è il nome sia del rabbino protagonista che di un saggio arabo  suo amico fraterno cui spetta la frase più bella del film. “Dio vorrebbe solo vedere tutti i suoi figli vivere felici e in pace. Che tristezza deve provare nel sentire il proprio Nome pronunciato invano da tanti imbecilli!”), donne intelligenti e bellissime che sopportano la frequente ottusità dei loro uomini continuando ad amarli ma sognando spesso nuove avventure; animali arguti capaci di parlare di Dio e con Dio meglio di tanti ferventi religiosi dediti solo al rancore e alla violenza (resi tali forse dal reiterato silenzio del Creatore); un pittore russo che assomiglia a Chagall e va in cerca della Gerusalemme perduta dei Falascià, ebrei etiopi custodi di un eden originario in cui gli ebrei vivrebbero in pace, e ancora un vecchio cantastorie che vive nel deserto in compagnia di un leone…intorno scenografie mozzafiato, da Algeri sui cui bianchi tetti la bella Zlabya dorme la notte sognando il suo gatto parlante (e ansioso di celebrare il proprio bar mitzwah, per diventare ebreo a tutti gli effetti e poterle rimanere accanto legittimamente) al cuore dell’Africa Nera da cui fa capolino pure Tintin, qui emblema di un razzismo coloniale che forse Sfar gli attribuisce un pò frettolosamente ma dal suo punto di vista con qualche ragione se confrontiamo gli stereotipi presenti nei fumetti di Hergé (figli anche del loro tempo) con il mai didascalico inno alla tolleranza e al rispetto di cui questo film è pieno, che trova analogie nell’opera di un altro grande maestro come Michel Ocelot (vedi ‘Azur e Asmar’) e che si sintetizza picarescamente nella strepitosa sequenza che vede a bordo di uno scassato camioncino viaggiare insieme un rabbino sefardita, un imam, un ex soldato zarista, un ebreo russo (ateo), un gatto e un mulo parlanti e una bella eritrea convertita per amore…su questa armata brancaleonesca sventola una bandiera su cui campeggia l’aquila imperiale russa con la stella di David in sovraimpressione: altro che Train de vie! Isaac B. Singer (o Mel Brooks) commenterebbe: “Le monde est vraiement un grand Chelm” – e a tutti noi: maazel tov! Unico dubbio: il 3D era proprio necessario?